mercoledì 3 dicembre 2008

Giovanni, maestro a tempo pieno di 4a elementare

Ho 27 anni e insegno da tre.
Ho avuto da sempre la passione per l’insegnamento.
Per questo ho frequentato le magistrali, perché volevo insegnare. Poi, preso il diploma, mi sono iscritto all’università e mi sono laureato in psicologia, diventando psicologo della scuola.
Nonostante il mio 110 e lode non ho trovato lavoro in Sicilia, da dove provengo.
Pochi mesi dopo la laurea sono stato chiamato per la prima supplenza qui in Piemonte e così è cominciata l’avventura. Ti chiamano un giorno per l’altro e ti dicono: ha una supplenza, accetta? e tu su due piedi devi dare una risposta e decidere in un attimo se cambiare completamente la tua vita. Dici sì e nel frattempo vai a prendere la valigia. E lasci gli amici, la famiglia, la tua vita fino a quel momento.
Il primo anno ho lavorato in una scuola elementare di Moncalieri e come prima esperienza, sia con i colleghi sia con i bambini, è stata proprio bellissima. L’anno successivo sono stato mandato a Candiolo vicino a Torino e poi l’anno scorso sono arrivato alla Carducci, a Torino, una terza; quest’anno ho avuto la fortuna di continuare nella stessa scuola e di lavorare con la stessa classe. Dico fortuna perché per noi precari è già difficile avere un incarico per anno intero.
Io faccio il tempo pieno.
A differenza di tutto quello che viene raccontato in televisione dove passa l’idea che gli insegnanti stiano tutti in aula contemporaneamente e magari pure a fare niente, quando i bambini entrano in classe alle 8.30 e trovano un solo insegnante e non due. Stanno con quell’insegnante fino alle 12.30; all’ora di pranzo c’è il cambio con la collega, che porta la classe in mensa e fa poi le ore di scuola pomeridiane fino alle 16.30.
Non c’è compresenza tutti i giorni: voglio specificare che le ore di compresenza sono 4 su 40 ore alla settimana, 2 ore per ogni insegnante della classe.
Per quanto riguarda queste ore di compresenza, noi ci siamo organizzati in questo modo: le mie ore di compresenza le faccio con la collega di religione, perché svolgo attività alternativa di consolidamento e rinforzo con alcuni bambini che non seguono religione; queste due ore sono fondamentali perché si riesce ad avere un rapporto quasi individualizzato con i bambini che hanno bisogno di un recupero, il che è molto utile. La collega invece fa le sue due ore di compresenza quando io faccio lezione io e aiuta bambini che hanno maggiori difficoltà con la matematica.
Allora non direi proprio che queste ore di compresenza sono sprecate.
In classe mi piacciono la disciplina e le regole però mi piace anche la battuta, scherzare con gli alunni, fare l’intervallo con loro. Perché l’intervento educativo, con i bambini, passa anche dal gioco; per questo abbiamo detto a scuola siete in un gruppo, giocate insieme, imparavate a socializzare, e abbiamo proposto che portassero dei giochi da tavolo per l’intervallo, cosa che hanno fatto.
La scuola secondo me non deve fornire soltanto un pacchetto di nozioni di italiano e matematica: la scuola alla fine è una famiglia.
Questo si vede soprattutto quando si fanno esperienze fuori dai muri dell’aula. Un anno abbiamo portato i bambini di una seconda elementare tre giorni in Liguria. All’inizio io stesso ero spaventato, bambini così piccoli, farli dormire in albergo, non si addormenteranno mai senza la mamma, pensavo. Infatti la prima sera avevo tutti i bambini aggrappati al collo, maestro voglio la mamma; ma dall’indomani nessuno cercava più i genitori e tutti dicevano: maestro la prossima volta stiamo via molto di più!
Il bello di lavorare con i bambini è che quello che ciò che tu fai in classe è qualcosa che i bambini ricorderanno dopo anni, perché il periodo della scuola elementare è decisivo nella formazione della persona. Oltretutto, oggi più che un tempo, le famiglie sono più spesso in crisi, la figura del maestro come punto di riferimento - ma non unico! - è molto importante, soprattutto se si vive il rapporto con gli alunni con passione e non ci si limita al puro passaggio di nozioni.
Essere in due è poi fondamentale anche dal punto di vista dell’insegnante.
Perché un discorso è gestire certe problematiche da soli e un conto è gestirle insieme ad un collega. E’ ovviamente meglio essere in équipe: il fatto di confrontarsi, tu cosa fai, che metodo usi, oggi sono scoraggiato, il fatto di sostenersi a vicenda, il fatto di mettere insieme due professionalità, vuol dire farle crescere, rafforzarle, e lo stesso intervento educativo ne risulta rafforzato. E’ come dire: è meglio crescere un bambino da solo o crescerlo in due genitori, può esserci il genitore eccezionale, ma la differenza tra l’essere da soli e l’essere in due è innegabile.
Questo rispetto alle criticità, ma anche nelle situazioni positive essere in due serve. Pensiamo alle uscite sul territorio con tutta la classe, che se non ci sono due insegnanti non si possono fare. Pensiamo all’attività di programmazione e di preparazione, che è una parte del lavoro degli insegnanti che non si conosce affatto. Io e la mia collega facciamo una riunione fissa settimanale per organizzare insieme il da farsi: se per esempio un bambino durante la settimana non va bene, ci si rende conto parlando tra colleghi che si sono rilevate le stesse difficoltà, che magari il bambino in quel periodo sta vivendo un determinato problema e ci si dice potremmo fare così e così, avvisiamo i genitori, aspettiamo ancora un attimo, eccetera eccetera.
Adesso, con questa riforma, tutto questo viene messo in discussione.
Spesso, sono gli stessi bambini che chiedono: allora maestro è vero che l’anno prossimo sei licenziato? Vedono i cartelloni appesi a scuola, si informano e dicono che non vogliono un maestro solo ma due. Con loro cerco di spiegare ma senza fare politica in classe.
Per quanto riguarda i genitori, qualcuno si è detto a favore della riforma, qualcuno, spero la maggioranza, dalla parte degli insegnanti e delle loro preoccupazioni, sicuramente un loro supporto aiuterebbe, se non altro per l’umore.
Vado alle assemblee sindacali, alle assemblee dei precari, alle manifestazioni, sit-in in piazza, cortei, due scioperi in un mese, la manifestazione di Roma del 30 ottobre.
Anche tra i colleghi i pareri sono discordanti, tra aspettative speranze e rassegnazione.
Ma sento un’angoscia quotidiana, come un pensiero fisso: lavori con serietà, facendoti in quattro per dare il massimo, ma intanto sai che l’anno prossimo sarai mandato a casa come una cosa che non serve più e si butta via.
Io sto anche seguendo la specialistica all’università e lì da un anno all’altro le tasse sono più che triplicate, ho pagato da 400 a 1400 euro. Però quando poi hai un lavoro riesci a pagarti le tasse, ma quando il lavoro viene a mancare e l’università diventa sempre più di élite, a quel punto è proprio il sistema che viene meno.
Siamo precari: non abbiamo la sicurezza di avere la stessa classe ogni anno, ma lasciateci almeno quella di lavorare ogni anno. Perché sì, sei un precario, ma un minimo di certezza devi pur averlo: non dico in quale classe andrai il prossimo anno, ma almeno in quale città andrai a finire, quale lavoro andrai a fare… Soprattutto quando il tuo progetto era di fare questo lavoro, di farlo bene e di farlo per sempre, e ti tolgono anche la prospettiva che sì, fai sacrifici, lasci la famiglia, gli amici, la tua terra, ti trasferisci lontano, ma prima o poi ti stabilizzerai, allora diventa davvero dura, a 27 anni, vedersi negato completamente il proprio progetto di vita.

testimonianza raccolta il 26-11-08

AS

Chiara, un bambino di quasi sei anni e una bambina di sette

Io sono mamma di un maschio che sta facendo l’ultimo anno alla scuola materna e compirà sei anni a gennaio e di una femmina che ha sette anni e fa la seconda elementare frequentando il tempo pieno nella scuola di quartiere. La bambina è molto contenta della scuola e delle sue maestre: le piace molto leggere e scrivere, le piace l’idea di andare a scuola e per questo ha degli ottimi risultati.
Allora un primo motivo per cui io difendo il tempo pieno, avendolo sperimentato con mia figlia, è che funziona: c’è un’offerta formativa che soltanto il tempo pieno può dare.
Andando a scuola a tempo pieno, oltre all’apprendimento delle competenze di base, a mia figlia viene data la possibilità di avere un forte legame con il territorio in cui vive, di visitare musei e mostre, di fare laboratori didattici; solo pochi giorni fa la classe è stata al museo A COME AMBIENTE per un laboratorio di sensibilizzazione sulla raccolta differenziata e sul riciclo dei materiali e dei rifiuti. Il tempo pieno permette ai bambini di acquisire competenze importanti; noi portiamo nostra figlia alle mostre e nei musei, ma la stessa esperienza fatta in un contesto diverso dalla famiglia, insieme ai compagni e con maestre che sanno come spiegare ai bambini, fa imparare in una maniera diversa, più efficace.
C’è poi un secondo livello, chiamiamolo logistico, per cui il tempo pieno è il minimo che la società può offrire ad una famiglia in cui entrambi i genitori lavorano. E’ evidente che un bambino che torna a casa alle 12 e 30 mette in crisi l’organizzazione familiare. Io vedo molte amiche che sono separate con figli, o che hanno un orario di lavoro per niente flessibile, o non hanno i nonni a disposizione, sulle quali un bambino a casa il pomeriggio grava in una maniera molto forte. Pensiamo che queste persone, anche senza tempo pieno, dovranno ovviamente continuare a lavorare, e i loro figli nelle ore in cui i genitori saranno al lavoro faranno cose che non sono affatto comparabili a quello che offre una scuola, una maestra, una persona formata per educare e far crescere i bambini.
E poi c’è un terzo livello, che dal mio punto di vista è il più importante e che ha a che fare con la mia storia personale e familiare.
Io sono nata nel ’65 e alle elementari ho avuto tempo breve e maestra unica. Sono stata sfortunata perché ho cambiato una maestra all’anno e quindi avuto cinque maestre uniche!
Andavo alla Tommaseo, che all’epoca era una scuola frequentata per l’80% da figli di immigrati dal sud Italia, dove era evidente il bisogno di cambiare qualche cosa nel sistema scolastico, perché quello che veniva offerto non bastava più: molti genitori lavorano entrambi, molti appartenevano a un ceto poco abbiente con poche disponibilità, la scuola offriva un doposcuola che però era un vero e proprio parcheggio. Io ricordo anche l’impegno e le lotte di mia mamma, anche lei maestra, maestra unica, per cambiare questo tipo di scuola che risultava inadeguata.
Per di più mio cugino, pur abitando in centro come me, era stato mandato dai genitori, molto impegnati, alla Nino Costa alle Vallette, la prima scuola dove a Torino si è sperimentato il tempo pieno. La cucina a scuola, le attività scolastiche il sabato e la domenica: perché le Vallette allora era un quartiere ghetto e la scuola aveva proprio un senso di coesione sociale molto forte. Il maestro di mio cugino era Fiorenzo Alfieri, uno tra i primi ad aver sperimentato il tempo pieno. Ricordo la mia invidia perché mio cugino tornava a casa alle cinque del pomeriggio raccontandomi le cose meravigliose che faceva a scuola e a cui ogni tanto, siccome molte cose venivano organizzate con le famiglie, partecipavo anch’io. Io che invece sperimentavo sulla mia pelle tutto un altro tipo di scuola.
Nel momento in cui come mamma mi sono trovata a scegliere la scuola per mia figlia non ho avuto dubbi che il tempo pieno fosse la scelta migliore. Come negli anni ’60, anche oggi ci troviamo a vivere un momento di forte immigrazione: l’integrazione riesce bene quando si fa capire già ai bambini che non ci sono differenze, facendoli vivere insieme. E’ importante che non si torni indietro di trent’anni, come si farebbe reintroducendo il maestro unico; come se si dicesse aboliamo il divorzio, un’altra di quelle battaglie che io ricordo aver visto fare ai miei genitori quando ero piccola e che mi sembrerebbe anacronistico rimettere in discussione oggi.
E’ vero che quando io mi trovo a discutere con le persone, molto spesso mi sento dire questa frase che mi fa andare in bestia: anch’io sono cresciuto con una maestra unica e non era poi così male. Come dire: sono cresciuto io cresceranno tutti, dimenticandosi del fatto che noi siamo cresciuti anche senza molte cose che i nostri figli oggi hanno: per esempio potendo giocare in cortile o potendo andare in giro da soli per Torino, come facevo io quando a dieci anni e mezzo prendevo un tram alle 7 del mattino per andare dall’altra parte della città alle medie. Ma adesso non è più così. E allora se il mondo è cambiato per certe cose, è cambiato anche per altro: se noi non possiamo fidarci a lasciare i nostri bambini a girare per Torino da soli a dieci anni perché riteniamo sia pericoloso, perché pensiamo invece con nostalgia al maestro unico che è una figura di altri tempi?
Per oppormi a questa riforma mi sono presa l’impegno di informare chi non è informato, perché ritengo che da parte di chi ha proposto questi cambiamenti il gioco sia stato molto sporco, che ci sia stata un’operazione mediatica per cercare di coprire gli aspetti negativi di questa riforma che avrebbero lasciato perplesso anche un elettore di destra: la campagna sul grembiulino e sul voto in condotta serve proprio a dare l’impressione di voler mettere ordine nella scuola, e chi potrebbe essere contrario al mettere ordine?
Oltretutto, per come sono state portate le cose, ritengo che si è giocato davvero sporco, perché fino al decreto dei primi di settembre non c’era stata alcuna notizia in proposito, quando in realtà le decisioni erano già state prese con i tagli finanziari di luglio.
La prima cosa che ho cercato di fare è stata allora quella di esaminare, da totale inesperta perché io non sono una giurista, i documenti scritti e confrontarli con quello che veniva detto; e nel momento in cui non c’era corrispondenza tra quello che veniva proclamato e quello che veniva scritto, mettere in luce queste discrepanze assieme alle persone. Perché è evidente che nel momento in cui si dice che il tempo pieno verrà mantenuto e anzi aumentato e si scrive però che la scuola elementare avrà un maestro unico a 24 ore settimanali è evidente che c’è qualcuno che non sta dicendo le cose chiare. Intorno a me adesso vedo una forte risposta, sempre più forte, da parte dei genitori e di gruppi di insegnanti, perché c’è sempre più gente che si è resa conto del fatto che ci sono delle cose che non tornano.
All’inizio, per la reazione che il sistema paese ha avuto, mi sono sentita molto sola: i giornali, a parte L’Unità, non ne parlavano né c‘era controinformazione da parte dell’opposizione. Soltanto dopo tutta una serie di manifestazioni i partiti e i sindacati hanno iniziato a svegliarsi, anche se ritengo in maniera assolutamente insufficiente rispetto a quello che sta succedendo. Continuo a vedere una scarsissima attenzione da parte di quella che io chiamo opposizione. Da un lato è sconfortante, perché avere un riferimento istituzionale forte vuol dire sentirsi più protetti di fronte alla confusione che si prova quando si cerca di decifrare una legge che rimanda a un articolo di un’altra legge che rimanda a un comma tal dei tali.
Ma dall’altro io credo che la forza di questo movimento sia proprio la sua trasversalità, il fatto che è un movimento nato perché ci si sente toccati in qualcosa in cui si crede indipendentemente dall’ideologia. E forse è anche vero che questo è servito perché il movimento venisse preso molto più sul serio di quanto non sarebbe stato se fosse stato appoggiato dai partiti: l’aver dimostrato che non abbiamo bisogno di nessun appoggio politico ci ha rafforzato e ci ha dato forza e credibilità.
Che altro vedo intorno a me?
In questo momento vedo un certo immobilismo, siamo come sospesi nel vuoto: ci sono stati dei momenti di accelerazione caotica quando a settembre si è iniziato a parlare del decreto legge, c’è stata tutta una serie di attenzioni nella speranza che il decreto legge non diventasse legge, e assieme a questo montare legislativo c’è stato anche un montare della protesta, fino alla grandissima manifestazione del 30 ottobre come io non ricordo si vedesse da molti anni, e a un certo punto è la legge è passata. Di lì c’è stata come una bolla di immobilismo, che percepisco anche quando parlo con le persone, che mi dicono e va bé la legge è passata.
Ma il fatto che la legge sia passata significa relativamente poco. Si può ancora agire moltissimo. Molti pensano che l’approvazione di una legge porti immediatamente alla sua attuazione, ma non è così: c’è ancora la possibilità, che dà speranza, di poter fare e agire.

testimonianza raccolta il 19-11-08

AS

Cristina, una bambina di due anni e mezzo e un bambino di cinque

Sono mamma di due bambini: una bambina di quasi tre anni che adesso va al nido e il prossimo anno comincerà la scuola materna e un bambino di cinque che l’anno prossimo andrà alle elementari.
Questa riforma mi colpisce doppiamente perché colpisce entrambi i miei figli.
Nella scuola materna comunale che sta frequentando mio figlio, oggi per una classe di venticinque bambini ci sono due insegnanti titolari, un’insegnante di sostegno e un’operatrice, che riesce a fare le veci delle maestre quando serve. Ricordo l’episodio recente di una bambina appena inserita all’asilo che un mattino si rifiutava di fare qualcosa che la mamma voleva da lei: è arrivata l’operatrice, ha proposto alla bimba la stessa cosa solo in un altro modo e lei lo ha fatto, semplicemente, mentre la mamma proprio non riusciva a convincerla.
Le due insegnanti della materna di mio figlio, anche per i loro stessi caratteri, ricoprono ruoli diversi: una ha un ruolo più affettivo, l’altra è meno materna ma non meno affettuosa, e questo è di grande stimolo per i bambini, che si confrontano con due approcci diversi. Le due maestre lavorano sia in alternanza che in compresenza, coprendo un tempo pieno che permette loro di dare continuità all’intervento con i bambini e di garantire una collegialità, sia nei confronti dei bimbi che dei genitori, che è fondamentale e che verrà a perdersi con questa riforma.
Mi chiedo cosa succederà quando mia figlia il prossimo anno andrà in questo asilo e magari avrà solo quattro ore di scuola al giorno. Mi spaventa che per la bambina non si possa ripetere l’esperienza che ha fatto il fratello.
C’è poi un problema di tipo organizzativo: io lavoro come libera professionista, sono separata e ho quindi una gestione familiare particolare e sono senza l’appoggio dei nonni perché non abitano a Torino.
Nel momento in cui viene a cadere il tempo pieno mi ritrovo a mezzogiorno con due bambini a casa da gestire. Sento un’incognita totale rispetto a quello che sarà il pomeriggio dei miei figli, anche se il governo continua a dirci che il tempo pieno ci sarà più di prima. Ma spiegatemi esattamente come si fa il tempo pieno se le maestre vanno a casa a mezzogiorno. Esattamente, come sarà il tempo pieno se a mezzogiorno finisce la scuola? Spiegatemi come sarà che avremo anzi più tempo pieno, perché io non l’ho visto scritto da nessuna parte. Io vedo solo scritto 24 ore. Non mi tornano i conti. Mi puoi dire che al pomeriggio ci sarà il parcheggio libero dei figli, ma questo non è il tempo pieno della scuola, è tutta un’altra cosa.
Una madre lavoratrice si sentirà veramente a posto? Le sembrerà che suo figlio stia facendo una buona esperienza o piuttosto si sentirà di parcheggiarlo e magari ci sarà pure chi ti dice, ma cosa fai, tuo figlio lo lasci a scuola, come se la scuola fosse un peccato mortale. Questa è una cosa che trovo allucinante.
Oltretutto mi fa star male lo spreco enorme di possibilità e di potenziale. Il tempo pieno permette le uscite sul territorio, che io trovo molto positive. Proprio qui a Torino, che è stata la prima capitale d’Italia, abbiamo una grande ricchezza a livello culturale, di musei, di luoghi storici, e io che non sono di qui apprezzo molto che i miei figli possano usufruire di tanta offerta culturale. Io i miei figli li porto comunque al museo, ma la scuola pubblica dovrebbe garantire a tutti questa esperienza, soprattutto a chi ha una famiglia che non lo fa per abitudine, per cultura, per disponibilità economica. Quello in cui io credo è una scuola pubblica che offra le stesse cose a tutti quanti, perché se inizi a negare le stesse opportunità a tutti fin da piccoli allora siamo a posto, poi non potranno che aumentare, le differenze.
Immagino poi che pian piano le eventuali attività pomeridiane che ci promettono diventeranno tutte a pagamento, perché già adesso la scuola non ha fondi e ne avrà ancora meno, sempre meno fondi e meno personale, e quindi si finirà per dare tutto in gestione a cooperative o non si sa bene chi e per cosa si dovrà pagare.
Allora ci sarà chi dirà, sai che cosa, io mio figlio lo tengo a casa, ci sono i nonni e può stare con loro, o c’è chi dirà mi arrangio con la baby-sitter, o chi dirà mi organizzo da sola e il pomeriggio lo porto a fare questo e a fare quello. Cosa significherà tutto questo? Che ci saranno delle differenze all’interno della classe di mio figlio il prossimo anno: il bambino che ha la mamma casalinga starà a casa con lei e chi invece ha la mamma che lavora resterà a scuola il pomeriggio. Sono convinta che nel momento in cui comincerà questo nuovo modo di fare scuola verrà fuori tutta la differenza tra chi può tenersi i figli a casa perché fa la casalinga o perché è disoccupata, come magari le mamme straniere che diranno, sai cosa, dato che c’è da pagare io mio figlio lo tengo a casa.
Io penso che togliere ai bambini di una stessa classe la possibilità di vivere un’esperienza comune, condivisa, servirà soltanto ad approfondire ancora di più, a sottolineare ancora di più, le differenze culturali, sociali, economiche. Ci saranno bimbi che andranno nella stessa scuola ma che, all’interno della stessa scuola, faranno cose molto diverse.
È proprio la questione delle differenze tra bambini che secondo me è tremenda. Perché questo significa impedire l’integrazione e ostacolare l’inclusione sociale: mi sembra che questo tipo di proposta cassi completamente l’intento di integrare, di includere, di insegnare a socializzare, a vivere insieme, fare un’esperienza comune.
E a proposito di integrazione, secondo me un’altra cosa è anche importante. Perché ci sia integrazione bisogna conoscersi: se tu non conosci, quello che non conosci arrivi a non rispettarlo o ad averne addirittura paura, mentre quello che conosci da vicino assume dimensioni reali e lo riconosci esattamente come te, impari a conviverci e anzi a costruirci insieme delle cose. Un esempio vicino, la Francia lo dimostra: ci sono le banlieu dove si ghettizzano gli stranieri e succedono i casini perché se li ghettizzi e se ti ghettizzi, ti isoli in una rocca, metti in moto quel meccanismo da cui non può che nascere l’odio; ma se cammini per le strade di Parigi vedi una società assolutamente mista e integrata e questo è quello che dovrà essere da noi e per i nostri figli tra vent’anni e secondo me è un arricchimento per i nostri figli se la scuola dà loro la possibilità di conoscere l’altro e imparare a conviverci.
Per questo io difendo una scuola pubblica che dia a tutti pari possibilità e per questo credo anche che togliendo il tempo pieno, automaticamente si discrimina. E ci parlano di meritocrazia. Allora, ragazzi miei, tutti a pari condizioni, perché solo all’interno di un sistema paritetico si può far valere la meritocrazia, nel senso che il più bravo viene fuori a parità di opportunità. Il concetto è: diamo a tutti le stesse opportunità di emergere. Quello che dico sempre io: è facile dire sono la più forte delle gazzelle se i leoni sono da un’altra parte. Tutti insieme nello stesso gruppo, confrontiamoci veramente e poi vediamo chi vale davvero.
Alla fine, tutti questi discorsi sulla qualità del maestro unico e di quanto spreco sia il tempo pieno sono delle prese in giro. La verità è che ai nostri governanti non interessa la scuola pubblica, loro i figli li mandano alla scuola privata, elitaria, quella dove magari li mettono in divisa, e intanto a noi riservano questo, perché per i nostri governanti noi cittadini siamo solo uno spreco, siamo quelli che consumano i loro soldi. Quella che loro prevedono per noi, per noi che non possiamo magari permettercelo, per noi che ci crediamo, per noi che per scelta non lo facciamo, è una sottoscuola. È questo il principio che veramente non va, proprio per niente.
La qualità del futuro dei nostri figli è una cosa che ci preoccupa tutti e per esprimere il nostro dissenso, con altri genitori abbiamo creato questo blog, a cui dedichiamo tanto tempo e tante energie. Il blog è il nostro modo per dire no, nato semplicemente perché ci siamo raccolti come gruppo di genitori che voleva darsi voce. Il blog ci serve per esprimerci, per esprimere quella voce che ha cominciato a levarsi il 4 ottobre.
Noi non siamo politicizzati, nasciamo come movimento traversale, non siamo aderenti a un partito o a un’organizzazione: semplicemente, con il blog, è come se facessimo i rappresentanti di classe per una fascia più ampia di popolazione. Il blog serve infatti anche a raccogliere intorno a noi quanti cercano un punto di riferimento.
La mancata informazione è diffusa; la gente che ci viene a visitare sul blog è tanta e ha bisogno di avere notizie diverse, che vanno dal testo del decreto, al capire cosa sta succedendo, al sapere quando c’è la prossima manifestazione, al sentirsi meno soli vedendo che altri genitori hanno le stesse preoccupazioni, e unirsi nell’indignazione per quello che ci continuano a dire, facendoci passare come quelli che non capiscono niente. Siamo rimasti stupiti del seguito che sta avendo il blog, eppure evidentemente sono tanti i genitori che come noi sono preoccupati, che come noi si indignano, che vogliono tenersi informati rispetto a quello che sta succedendo.
Al tempo stesso vedo anche intorno a me tanta disinformazione e indifferenza. Disinformazione e indifferenza. Le due cose, attenzione.
C’è il fastidio di chi pensa che non sarà poi così grave, perché basta che il ministro vada in televisione e dica ma no ci sarà il tempo pieno e tutti dicono se l’ha detto il ministro è vero.
Poi c’è una parte di genitori che pensa oh no bisogna occuparsi anche di questo ed è pure un po’ fatalista; ma forse è solo che non è abituata a prendersi in carico il proprio futuro, non ha l’abitudine a pensarci.
E poi vedo intorno a me una parte che ignora tranquillamente tutta la questione, fa una scelta del tutto diversa e manda i figli alle private e voilà, semplicemente salta a piè pari la questione perché le sue scelte le ha già orientate altrove.
Sinceramente, anche se io non avessi figli in età scolare, penso che quello che sta succedendo mi scandalizzerebbe molto comunque: che un intero sistema di istruzione pubblica, dalle materne alla ricerca post universitaria, venga sostanzialmente tagliato, dà l’idea del su che cosa un paese investe o non investe. E a me questa storia dell’essenzializzazione, per parlare come loro, non convince per niente: perché se tu vuoi essenzializzare nel senso di rendere più produttiva la scuola pubblica non fai dei tagli così, fai un altro tipo di intervento, consideri i programmi, fai dei confronti a livello internazionale e magari non tocchi le elementari che sono l’unico ciclo che funziona, ma lo fai sulle medie e le superiori… non mi sarei arrabbiata così tanto se la riforma fosse andata ad incidere su ciò che andava davvero riformato, su cui c’era effettivamente bisogno di mettere mano, di aggiustare il tiro. Ma andare ad incidere proprio là dove non ce n’era bisogna mi sembra molto irragionevole.
Ci continuano a rimproverare che noi siamo contro i tagli punto e basta. Non è così: se non toccate la qualità dell’istruzione potete anche tagliare. Sono d’accordo che c’è bisogno di una riforma del sistema dell’istruzione, questo è evidente, compreso il fatto che occorre rivedere l’attuale sistema dei concorsi in Italia. Però attenzione, facciamolo con criterio, non che questo significhi che l’istruzione diventa elitaria, per pochi: l’istruzione deve essere pubblica, per tutti, come la sanità, io ne sono profondamente, ideologicamente convinta.
Adesso, anche se la legge è stata approvata non bisogna assolutamente credere che sia cosa fatta. A cosa serve manifestare, senti dire. Innanzitutto, se nessuno manifesta vuol dire che tutti sono d’accordo, chi tace acconsente. Invece io se non sono d’accordo voglio dirlo: come cittadina ho diritto a manifestare il mio dissenso, in maniera pacifica, non violenta, legale. Non bisogna assolutamente darsi per vinti. Aspettiamo i regolamenti a seguito del piano programmatico e vediamo anche cosa succederà se una fascia della popolazione continua a manifestare il suo dissenso in maniera così massiccia.
Io non mi arrendo, ma non mi sento ascoltata. Non mi sembra che ci sia stato nessun tipo di opposizione concreta alla riforma o se c’è stata è stata assolutamente insufficiente; non c’è stata nessuna presa in carico della nostra protesta e a livello di rappresentanza politica mi sento totalmente sola, tanto è vero che i blog e le altre varie iniziative servono proprio a continuare a dire no e a non sentirci soli. Sento però che a livello di società civile, di persone, nel nostro piccolo, la nostra mobilitazione dà la misura della voce che possiamo avere e che vogliamo avere. Ed è su questo che dobbiamo continuare a insistere.
Non siamo tutti degli scriteriati che vogliono che i bambini imparino a fare i rivoluzionari, però sono contenta di averli portati in piazza con me nel momento in cui c’era bisogno di farsi sentire, sono contenta di aver dato loro questa lezione di democrazia. Devo ringraziare il governo per avermi dato questa opportunità? Non penso proprio.
Anzi, penso che uno stato che non tutela i suoi cittadini, che sega le gambe al suo stesso futuro, non sia uno stato in cui meriti di vivere e crescere.

testimonianza raccolta il 14-11-08

AS