mercoledì 3 dicembre 2008

Giovanni, maestro a tempo pieno di 4a elementare

Ho 27 anni e insegno da tre.
Ho avuto da sempre la passione per l’insegnamento.
Per questo ho frequentato le magistrali, perché volevo insegnare. Poi, preso il diploma, mi sono iscritto all’università e mi sono laureato in psicologia, diventando psicologo della scuola.
Nonostante il mio 110 e lode non ho trovato lavoro in Sicilia, da dove provengo.
Pochi mesi dopo la laurea sono stato chiamato per la prima supplenza qui in Piemonte e così è cominciata l’avventura. Ti chiamano un giorno per l’altro e ti dicono: ha una supplenza, accetta? e tu su due piedi devi dare una risposta e decidere in un attimo se cambiare completamente la tua vita. Dici sì e nel frattempo vai a prendere la valigia. E lasci gli amici, la famiglia, la tua vita fino a quel momento.
Il primo anno ho lavorato in una scuola elementare di Moncalieri e come prima esperienza, sia con i colleghi sia con i bambini, è stata proprio bellissima. L’anno successivo sono stato mandato a Candiolo vicino a Torino e poi l’anno scorso sono arrivato alla Carducci, a Torino, una terza; quest’anno ho avuto la fortuna di continuare nella stessa scuola e di lavorare con la stessa classe. Dico fortuna perché per noi precari è già difficile avere un incarico per anno intero.
Io faccio il tempo pieno.
A differenza di tutto quello che viene raccontato in televisione dove passa l’idea che gli insegnanti stiano tutti in aula contemporaneamente e magari pure a fare niente, quando i bambini entrano in classe alle 8.30 e trovano un solo insegnante e non due. Stanno con quell’insegnante fino alle 12.30; all’ora di pranzo c’è il cambio con la collega, che porta la classe in mensa e fa poi le ore di scuola pomeridiane fino alle 16.30.
Non c’è compresenza tutti i giorni: voglio specificare che le ore di compresenza sono 4 su 40 ore alla settimana, 2 ore per ogni insegnante della classe.
Per quanto riguarda queste ore di compresenza, noi ci siamo organizzati in questo modo: le mie ore di compresenza le faccio con la collega di religione, perché svolgo attività alternativa di consolidamento e rinforzo con alcuni bambini che non seguono religione; queste due ore sono fondamentali perché si riesce ad avere un rapporto quasi individualizzato con i bambini che hanno bisogno di un recupero, il che è molto utile. La collega invece fa le sue due ore di compresenza quando io faccio lezione io e aiuta bambini che hanno maggiori difficoltà con la matematica.
Allora non direi proprio che queste ore di compresenza sono sprecate.
In classe mi piacciono la disciplina e le regole però mi piace anche la battuta, scherzare con gli alunni, fare l’intervallo con loro. Perché l’intervento educativo, con i bambini, passa anche dal gioco; per questo abbiamo detto a scuola siete in un gruppo, giocate insieme, imparavate a socializzare, e abbiamo proposto che portassero dei giochi da tavolo per l’intervallo, cosa che hanno fatto.
La scuola secondo me non deve fornire soltanto un pacchetto di nozioni di italiano e matematica: la scuola alla fine è una famiglia.
Questo si vede soprattutto quando si fanno esperienze fuori dai muri dell’aula. Un anno abbiamo portato i bambini di una seconda elementare tre giorni in Liguria. All’inizio io stesso ero spaventato, bambini così piccoli, farli dormire in albergo, non si addormenteranno mai senza la mamma, pensavo. Infatti la prima sera avevo tutti i bambini aggrappati al collo, maestro voglio la mamma; ma dall’indomani nessuno cercava più i genitori e tutti dicevano: maestro la prossima volta stiamo via molto di più!
Il bello di lavorare con i bambini è che quello che ciò che tu fai in classe è qualcosa che i bambini ricorderanno dopo anni, perché il periodo della scuola elementare è decisivo nella formazione della persona. Oltretutto, oggi più che un tempo, le famiglie sono più spesso in crisi, la figura del maestro come punto di riferimento - ma non unico! - è molto importante, soprattutto se si vive il rapporto con gli alunni con passione e non ci si limita al puro passaggio di nozioni.
Essere in due è poi fondamentale anche dal punto di vista dell’insegnante.
Perché un discorso è gestire certe problematiche da soli e un conto è gestirle insieme ad un collega. E’ ovviamente meglio essere in équipe: il fatto di confrontarsi, tu cosa fai, che metodo usi, oggi sono scoraggiato, il fatto di sostenersi a vicenda, il fatto di mettere insieme due professionalità, vuol dire farle crescere, rafforzarle, e lo stesso intervento educativo ne risulta rafforzato. E’ come dire: è meglio crescere un bambino da solo o crescerlo in due genitori, può esserci il genitore eccezionale, ma la differenza tra l’essere da soli e l’essere in due è innegabile.
Questo rispetto alle criticità, ma anche nelle situazioni positive essere in due serve. Pensiamo alle uscite sul territorio con tutta la classe, che se non ci sono due insegnanti non si possono fare. Pensiamo all’attività di programmazione e di preparazione, che è una parte del lavoro degli insegnanti che non si conosce affatto. Io e la mia collega facciamo una riunione fissa settimanale per organizzare insieme il da farsi: se per esempio un bambino durante la settimana non va bene, ci si rende conto parlando tra colleghi che si sono rilevate le stesse difficoltà, che magari il bambino in quel periodo sta vivendo un determinato problema e ci si dice potremmo fare così e così, avvisiamo i genitori, aspettiamo ancora un attimo, eccetera eccetera.
Adesso, con questa riforma, tutto questo viene messo in discussione.
Spesso, sono gli stessi bambini che chiedono: allora maestro è vero che l’anno prossimo sei licenziato? Vedono i cartelloni appesi a scuola, si informano e dicono che non vogliono un maestro solo ma due. Con loro cerco di spiegare ma senza fare politica in classe.
Per quanto riguarda i genitori, qualcuno si è detto a favore della riforma, qualcuno, spero la maggioranza, dalla parte degli insegnanti e delle loro preoccupazioni, sicuramente un loro supporto aiuterebbe, se non altro per l’umore.
Vado alle assemblee sindacali, alle assemblee dei precari, alle manifestazioni, sit-in in piazza, cortei, due scioperi in un mese, la manifestazione di Roma del 30 ottobre.
Anche tra i colleghi i pareri sono discordanti, tra aspettative speranze e rassegnazione.
Ma sento un’angoscia quotidiana, come un pensiero fisso: lavori con serietà, facendoti in quattro per dare il massimo, ma intanto sai che l’anno prossimo sarai mandato a casa come una cosa che non serve più e si butta via.
Io sto anche seguendo la specialistica all’università e lì da un anno all’altro le tasse sono più che triplicate, ho pagato da 400 a 1400 euro. Però quando poi hai un lavoro riesci a pagarti le tasse, ma quando il lavoro viene a mancare e l’università diventa sempre più di élite, a quel punto è proprio il sistema che viene meno.
Siamo precari: non abbiamo la sicurezza di avere la stessa classe ogni anno, ma lasciateci almeno quella di lavorare ogni anno. Perché sì, sei un precario, ma un minimo di certezza devi pur averlo: non dico in quale classe andrai il prossimo anno, ma almeno in quale città andrai a finire, quale lavoro andrai a fare… Soprattutto quando il tuo progetto era di fare questo lavoro, di farlo bene e di farlo per sempre, e ti tolgono anche la prospettiva che sì, fai sacrifici, lasci la famiglia, gli amici, la tua terra, ti trasferisci lontano, ma prima o poi ti stabilizzerai, allora diventa davvero dura, a 27 anni, vedersi negato completamente il proprio progetto di vita.

testimonianza raccolta il 26-11-08

AS

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