Mi chiamo Marisa e sono la mamma di una bambina che frequenta la seconda alla scuola elementare Sclopis di via del Carmine a Torino.
La motivazione che ci ha portato a scegliere il tempo pieno è legata all’esigenza di offrire a nostra figlia una scuola in cui oltre al programma “tradizionale” venisse proposta anche tutta una serie di attività collaterali importanti per costruire ed arricchire il suo bagaglio umano e culturale. Una scuola che le permettesse di stare più tempo con i compagni e oltre alle ore prettamente dedicate ad imparare a leggere a scrivere a contare e all’esercitazione, le desse il modo di confrontarsi con gli altri e con i diversi aspetti della vita, di compiere visite ai musei, seguire laboratori, uscire nella città, slegata dalla relazione esclusiva con papà e mamma, per cimentarsi autonomamente e individualmente con il mondo esterno alla famiglia attraverso le figure delle insegnanti, altri adulti o il gruppo dei suoi compagni.
Eravamo alla ricerca di una scuola che offrisse un programma ricco di iniziative valide, e non solo di riempitivi del tempo. Anche se noi lavoriamo entrambi, non si trattava tanto di avere nostra figlia “sistemata” a scuola anche al pomeriggio, quanto di darle l’occasione per sperimentare tutto ciò e comprendere il grande valore dell’arte, della natura e della relazione con gli altri.
Magari i detrattori del tempo pieno direbbero che tutto ciò costituisce un di più e che ciò che conta è imparare a leggere e a scrivere. Per rispondere loro userei una frase che considero un po’ come il leit-motiv della mia vita: esiste un’intelligenza di cuore e un’intelligenza di studio.
Ritengo fondamentale la compenetrazione dei due aspetti. Ma, soprattutto, per me è importante stimolare in nostra figlia un’intelligenza di cuore, cioè la capacità di percepire, di arrivare alle cose sviluppando i propri canali, cercando in se stessa modi, risposte, atteggiamenti. Perché, indipendentemente dal grado di istruzione che avrà, rimane importante che cresca una persona autentica, che impari l’importanza di conoscersi per quanto possibile, aperta e curiosa dell’esistenza, rispettosa degli altri. Questo è quello che chiamo intelligenza di cuore.
Per noi la scuola a tempo pieno rappresenta tutto questo. Perché l’intelligenza di cuore può essere stimolata solo da un tempo più disteso e da una didattica che offre un certo tipo di apprendimento ed esperienza. Si può mettere un bambino alla scrivania e insegnargli a leggere e scrivere e far di conto, gli si può chiedere un’emulazione o un’imitazione, ma c’è tutto un mondo e tutta una serie di prospettive che non si possono trasmettere in questo modo. Ciascuno di noi coltiva una propria idea dei figli, delle speranze e dei sogni che riponiamo in loro: noi non vogliamo una “figlia-specchio”, che cresce imitando i genitori o l’insegnante, ma una bambina che, pur con tutti i suoi limiti e le sue debolezze, sviluppi il proprio bisogno di capire, di conoscere, di imparare, di vivere.
Si può fare matematica misurando via via quanto cresce la piantina che è stata seminata nel vaso sul davanzale della finestra dell’aula; geometria con la visita ad un museo o ad un palazzo ravvedendo all’interno della struttura architettonica le forme geometriche, magari in un’ogiva, in una finestra, in un portone, o nel tappeto dell’entrata; si può fare geografia contrassegnando sull’atlante i diversi paesi di provenienza dei bambini che frequentano la scuola. Sono tutte modalità probabilmente aliene da un certo approccio tradizionale, che però si pongono sullo stesso piano cognitivo dei bambini e, assecondandolo, lo stimolano. Secondo me è molto importante riuscire a comunicare con i bambini, in modo che si sentano capiti da noi adulti e sentano apprezzata le loro modalità di apprendimento, senza sentirsi psicologicamente in dovere di adeguarsi alle nostre. E’ basilare, proprio per rispetto del loro pensiero e personalità in formazione.
Alla Sclopis abbiamo trovato questo tipo di scuola ed abbiamo anche avuto la fortuna di incontrare due maestre molto preparate e molto agguerrite - in senso positivo!, certo - che si sono prodigate da subito in mille modi e senza forzature per arricchire quanto più il bagaglio culturale e umano dei nostri figli e creare all’interno della classe un clima molto bello e un’atmosfera molto serena, facilitando l’inserimento di tutti i bambini, anche di quelli stranieri arrivati da poco in Italia. Le maestre hanno subito cercato un confronto diretto con noi genitori, al quale noi genitori abbiamo risposto con grande fervore, traducendosi in una bella intesa. Siamo quindi più che soddisfatti.
Ma se mi prefiguro una scuola a 24 ore, a tempo breve, vedo dei grossi rischi. Detto in modo franco, quello che ci aspetta è sostanzialmente una situazione di assoluta casualità, che potrà essere fortunata o sfortunata indipendentemente da ogni logica didattica.
Nel migliore nei casi ai bambini sarà data una bella infarinatura di programmi che peraltro sono già stati tagliati dalla riforma Moratti: se ci andrà bene, dalle 24 ore i nostri figli ricaveranno una formazione da Bignami, lacunosa e teorica, lontana dal loro reale contesto di vita, slegata dalla dimensione storica, sociale, di territorio, in cui si trovano a vivere.
Nel peggiore dei casi, dipenderà tutto dal tipo di insegnante. Perché se c’è un insegnante particolarmente legato all’osservanza dei programmi ministeriali, allora si avrà quello che è sempre successo anche in passato, ossia la maestra che “corre” in avanti e arriva alla fine dell’anno con quei pochi che capiscono, che sono svegli, intuitivi e ricettivi, e lascia il resto della classe a barcamenarsi come può. Oppure, si avrà la maestra che passa la maggior parte del tempo a dare le famose note (che continuano a riscuotere molto successo anche presso molte insegnanti delle generazioni più giovani), terrorizzando i bambini, che ben presto impareranno a ripetere pedestremente ciò che lei desidera pur di non ricevere continuamente votacci sul diario. Oppure ancora il caso della maestra - purtroppo mi dispiace dirlo, io che sono stata per un lungo periodo un’insegnante di liceo e universitaria - che si “sdraierà” comodamente sui programmi e darà ai bambini la lettura a memoria da pagina 3 a pagina 5: questo produrrà tanti piccoli replicanti diligenti che avranno sì un buon voto di condotta, ma il cui sviluppo, il cui livello di apprendimento e maturazione psicologico e umano saranno seriamente compromessi.
Un repertorio che quelli della mia generazione hanno già visto, ci siamo passati per esperienza diretta. Io per fortuna ho avuto una maestra straordinaria, però già per il mio compagno non è stato lo stesso, faceva i compiti a casa con la mamma, per fortuna anche lei insegnante, perché a scuola aveva una maestra che al minimo volare di mosca mollava ceffoni e obbligava i bambini a ripetere per pagine intere le vocali. E’ un déja-vu tremendo, quello che ci aspetta.
Noi abbiamo un’unica figlia e probabilmente i nostri attuali governanti mi direbbero: non preoccuparti per lei, perché ti garantiamo che finirà le sue elementari con il tempo pieno. Però io sono portata a dire comunque NO; mi porta a dire NO un’innata propensione per la comunità sociale: nessuno di noi si può concepire al di fuori di essa, nel bene e nel male.
Secondo me abolire il tempo pieno significa infatti innescare tutta una serie di risvolti discriminatori, antisociali, antiumanistici e antidemocratici, mascherati, tra l’altro neppure troppo bene, dietro questa legge. A ben vedere, infatti, non significa soltanto scegliere e pronunciarsi per una classe, quella dei cosiddetti migliori, fortunati, eletti, perché ad essere lasciate fuori non saranno solo quelle categorie che ci vengono automaticamente in mente (stranieri, poveri, bambini che hanno meno capacità cognitive e intellettive: cioè, le rappresentazioni tradizionali del diverso/ debole), ma potenzialmente tutti coloro che non si adegueranno al modello imposto. Questo a mio parere costituisce, o implica, una spaccatura tra un “noi” e un “loro” che è da rifiutare a priori. Io tendo alla convivenza, al rispetto, e non posso pensare a una scuola che alleva nostra figlia come una piccola egocentrica, insensibile a tutto ciò che non riguarda il suo mondo o il suo interesse personale.
Per esprimere il mio NO, insieme al gruppo di genitori e amici con i quali condivo una visione complessiva di vita, ci siamo sentiti spinti dall’esigenza e dal dovere di fare qualcosa, di non accettare supinamente quello che ci veniva propinato. Per formazione e affinità siamo tutti portati a confrontarci, ad assumerci in forma diversa la responsabilità, a porci la famosa domanda “che fare?”. In coordinamento con il Coogen di Torino (www.coogen.org), abbiamo iniziato a organizzare degli incontri di sensibilizzazione e informazione, anche con il sostegno del corpo insegnante della nostra scuola, che devo dire ha agito con fervore e disponibilità.
Sostanzialmente, abbiamo riscontrato due diversi fenomeni: da una parte, un preoccupante livello di mancanza di interesse per una riforma poi diventata legge che prevedeva tutta una serie di misure capestro, fondata sulla mancanza di informazione. Dall’altra, un profondo senso di disorientamento e di impotenza, da noi stessi provato. E’ stato anzi per affrontare e dare un senso a questa sensazione e mantenere un grado di dignità e responsabilità civile, che abbiamo iniziato ad agire sul territorio e organizzare degli incontri sia alle materna che alle elementari del quartiere.
Abbiamo inoltre creato quello che a mio parere è uno strumento fondamentale di comunicazione, di informazione, di confronto e di dibattito: il blog “Le mie maestre sono già uniche”. Grazie alla competenza di un’amica, che ha concretamente costruito il blog, abbiamo avuto modo di metterci in contatto con persone altrimenti difficili da raggiungere e allargato il circuito di contatti e conoscenze, producendo un effetto a cerchi concentrici di informazioni, proposte, decisioni che via via venivano prese, all’interno del nostro gruppo, con le maestre, nella scuola, con il Coogen e con i gruppi di genitori e insegnanti delle altre scuole di Torino.
Intorno a me rispetto a tutto questo vedo come due mondi, se non contrapposti paralleli.
Da una parte c’è un mondo in fermento che reagisce, pensa, elabora controproposte ed anche in seguito alla protesta per la legge Gemini sta riscoprendo coesione, responsabilità civile, solidarietà e comunicazione sociale.
Ma questo mondo convive con una sacca incredibilmente vasta e profonda di disinteresse e disinformazione, in molti casi peraltro coltivata ad hoc. Quello che non finisce di stupirmi è che molti genitori i cui bambini inizieranno il prossimo anno le elementari o sono alle materne e ai nidi e quindi diventeranno loro malgrado prima o poi protagonisti di questa storia, si comportano come se la legge Gelmini non li toccasse minimamente. Un atteggiamento che pare purtroppo radicato, a mio parere, e testimonia un sentire diffuso a livello sociale: queste famiglie, per possibilità economica o per scelta di vita, snobbano tranquillamente il problema come se non esistesse, tanto loro, e questa è l’affermazione purtroppo più diffusa, possono mandare il bambino in una scuola privata. Ad un’argomentazione umana e formativa si risponde con un’argomentazione prettamente economica: probabilmente, è questo lo zoccolo duro contro il quale rischia di infrangersi ogni tentativo di comunicazione e di mediazione.
Ma dopo tutto, anche questa fase rientra nell’alternanza ciclica della vita (e non solo politica), dunque mi dico: andiamo avanti nella quotidianità, senza fanatismi né rivelazioni, con rispetto, dignità, curiosità e gioia. Una semplice testimonianza di vita, dalla quale i nostri figli possano partire per disegnare la loro.
La motivazione che ci ha portato a scegliere il tempo pieno è legata all’esigenza di offrire a nostra figlia una scuola in cui oltre al programma “tradizionale” venisse proposta anche tutta una serie di attività collaterali importanti per costruire ed arricchire il suo bagaglio umano e culturale. Una scuola che le permettesse di stare più tempo con i compagni e oltre alle ore prettamente dedicate ad imparare a leggere a scrivere a contare e all’esercitazione, le desse il modo di confrontarsi con gli altri e con i diversi aspetti della vita, di compiere visite ai musei, seguire laboratori, uscire nella città, slegata dalla relazione esclusiva con papà e mamma, per cimentarsi autonomamente e individualmente con il mondo esterno alla famiglia attraverso le figure delle insegnanti, altri adulti o il gruppo dei suoi compagni.
Eravamo alla ricerca di una scuola che offrisse un programma ricco di iniziative valide, e non solo di riempitivi del tempo. Anche se noi lavoriamo entrambi, non si trattava tanto di avere nostra figlia “sistemata” a scuola anche al pomeriggio, quanto di darle l’occasione per sperimentare tutto ciò e comprendere il grande valore dell’arte, della natura e della relazione con gli altri.
Magari i detrattori del tempo pieno direbbero che tutto ciò costituisce un di più e che ciò che conta è imparare a leggere e a scrivere. Per rispondere loro userei una frase che considero un po’ come il leit-motiv della mia vita: esiste un’intelligenza di cuore e un’intelligenza di studio.
Ritengo fondamentale la compenetrazione dei due aspetti. Ma, soprattutto, per me è importante stimolare in nostra figlia un’intelligenza di cuore, cioè la capacità di percepire, di arrivare alle cose sviluppando i propri canali, cercando in se stessa modi, risposte, atteggiamenti. Perché, indipendentemente dal grado di istruzione che avrà, rimane importante che cresca una persona autentica, che impari l’importanza di conoscersi per quanto possibile, aperta e curiosa dell’esistenza, rispettosa degli altri. Questo è quello che chiamo intelligenza di cuore.
Per noi la scuola a tempo pieno rappresenta tutto questo. Perché l’intelligenza di cuore può essere stimolata solo da un tempo più disteso e da una didattica che offre un certo tipo di apprendimento ed esperienza. Si può mettere un bambino alla scrivania e insegnargli a leggere e scrivere e far di conto, gli si può chiedere un’emulazione o un’imitazione, ma c’è tutto un mondo e tutta una serie di prospettive che non si possono trasmettere in questo modo. Ciascuno di noi coltiva una propria idea dei figli, delle speranze e dei sogni che riponiamo in loro: noi non vogliamo una “figlia-specchio”, che cresce imitando i genitori o l’insegnante, ma una bambina che, pur con tutti i suoi limiti e le sue debolezze, sviluppi il proprio bisogno di capire, di conoscere, di imparare, di vivere.
Si può fare matematica misurando via via quanto cresce la piantina che è stata seminata nel vaso sul davanzale della finestra dell’aula; geometria con la visita ad un museo o ad un palazzo ravvedendo all’interno della struttura architettonica le forme geometriche, magari in un’ogiva, in una finestra, in un portone, o nel tappeto dell’entrata; si può fare geografia contrassegnando sull’atlante i diversi paesi di provenienza dei bambini che frequentano la scuola. Sono tutte modalità probabilmente aliene da un certo approccio tradizionale, che però si pongono sullo stesso piano cognitivo dei bambini e, assecondandolo, lo stimolano. Secondo me è molto importante riuscire a comunicare con i bambini, in modo che si sentano capiti da noi adulti e sentano apprezzata le loro modalità di apprendimento, senza sentirsi psicologicamente in dovere di adeguarsi alle nostre. E’ basilare, proprio per rispetto del loro pensiero e personalità in formazione.
Alla Sclopis abbiamo trovato questo tipo di scuola ed abbiamo anche avuto la fortuna di incontrare due maestre molto preparate e molto agguerrite - in senso positivo!, certo - che si sono prodigate da subito in mille modi e senza forzature per arricchire quanto più il bagaglio culturale e umano dei nostri figli e creare all’interno della classe un clima molto bello e un’atmosfera molto serena, facilitando l’inserimento di tutti i bambini, anche di quelli stranieri arrivati da poco in Italia. Le maestre hanno subito cercato un confronto diretto con noi genitori, al quale noi genitori abbiamo risposto con grande fervore, traducendosi in una bella intesa. Siamo quindi più che soddisfatti.
Ma se mi prefiguro una scuola a 24 ore, a tempo breve, vedo dei grossi rischi. Detto in modo franco, quello che ci aspetta è sostanzialmente una situazione di assoluta casualità, che potrà essere fortunata o sfortunata indipendentemente da ogni logica didattica.
Nel migliore nei casi ai bambini sarà data una bella infarinatura di programmi che peraltro sono già stati tagliati dalla riforma Moratti: se ci andrà bene, dalle 24 ore i nostri figli ricaveranno una formazione da Bignami, lacunosa e teorica, lontana dal loro reale contesto di vita, slegata dalla dimensione storica, sociale, di territorio, in cui si trovano a vivere.
Nel peggiore dei casi, dipenderà tutto dal tipo di insegnante. Perché se c’è un insegnante particolarmente legato all’osservanza dei programmi ministeriali, allora si avrà quello che è sempre successo anche in passato, ossia la maestra che “corre” in avanti e arriva alla fine dell’anno con quei pochi che capiscono, che sono svegli, intuitivi e ricettivi, e lascia il resto della classe a barcamenarsi come può. Oppure, si avrà la maestra che passa la maggior parte del tempo a dare le famose note (che continuano a riscuotere molto successo anche presso molte insegnanti delle generazioni più giovani), terrorizzando i bambini, che ben presto impareranno a ripetere pedestremente ciò che lei desidera pur di non ricevere continuamente votacci sul diario. Oppure ancora il caso della maestra - purtroppo mi dispiace dirlo, io che sono stata per un lungo periodo un’insegnante di liceo e universitaria - che si “sdraierà” comodamente sui programmi e darà ai bambini la lettura a memoria da pagina 3 a pagina 5: questo produrrà tanti piccoli replicanti diligenti che avranno sì un buon voto di condotta, ma il cui sviluppo, il cui livello di apprendimento e maturazione psicologico e umano saranno seriamente compromessi.
Un repertorio che quelli della mia generazione hanno già visto, ci siamo passati per esperienza diretta. Io per fortuna ho avuto una maestra straordinaria, però già per il mio compagno non è stato lo stesso, faceva i compiti a casa con la mamma, per fortuna anche lei insegnante, perché a scuola aveva una maestra che al minimo volare di mosca mollava ceffoni e obbligava i bambini a ripetere per pagine intere le vocali. E’ un déja-vu tremendo, quello che ci aspetta.
Noi abbiamo un’unica figlia e probabilmente i nostri attuali governanti mi direbbero: non preoccuparti per lei, perché ti garantiamo che finirà le sue elementari con il tempo pieno. Però io sono portata a dire comunque NO; mi porta a dire NO un’innata propensione per la comunità sociale: nessuno di noi si può concepire al di fuori di essa, nel bene e nel male.
Secondo me abolire il tempo pieno significa infatti innescare tutta una serie di risvolti discriminatori, antisociali, antiumanistici e antidemocratici, mascherati, tra l’altro neppure troppo bene, dietro questa legge. A ben vedere, infatti, non significa soltanto scegliere e pronunciarsi per una classe, quella dei cosiddetti migliori, fortunati, eletti, perché ad essere lasciate fuori non saranno solo quelle categorie che ci vengono automaticamente in mente (stranieri, poveri, bambini che hanno meno capacità cognitive e intellettive: cioè, le rappresentazioni tradizionali del diverso/ debole), ma potenzialmente tutti coloro che non si adegueranno al modello imposto. Questo a mio parere costituisce, o implica, una spaccatura tra un “noi” e un “loro” che è da rifiutare a priori. Io tendo alla convivenza, al rispetto, e non posso pensare a una scuola che alleva nostra figlia come una piccola egocentrica, insensibile a tutto ciò che non riguarda il suo mondo o il suo interesse personale.
Per esprimere il mio NO, insieme al gruppo di genitori e amici con i quali condivo una visione complessiva di vita, ci siamo sentiti spinti dall’esigenza e dal dovere di fare qualcosa, di non accettare supinamente quello che ci veniva propinato. Per formazione e affinità siamo tutti portati a confrontarci, ad assumerci in forma diversa la responsabilità, a porci la famosa domanda “che fare?”. In coordinamento con il Coogen di Torino (www.coogen.org), abbiamo iniziato a organizzare degli incontri di sensibilizzazione e informazione, anche con il sostegno del corpo insegnante della nostra scuola, che devo dire ha agito con fervore e disponibilità.
Sostanzialmente, abbiamo riscontrato due diversi fenomeni: da una parte, un preoccupante livello di mancanza di interesse per una riforma poi diventata legge che prevedeva tutta una serie di misure capestro, fondata sulla mancanza di informazione. Dall’altra, un profondo senso di disorientamento e di impotenza, da noi stessi provato. E’ stato anzi per affrontare e dare un senso a questa sensazione e mantenere un grado di dignità e responsabilità civile, che abbiamo iniziato ad agire sul territorio e organizzare degli incontri sia alle materna che alle elementari del quartiere.
Abbiamo inoltre creato quello che a mio parere è uno strumento fondamentale di comunicazione, di informazione, di confronto e di dibattito: il blog “Le mie maestre sono già uniche”. Grazie alla competenza di un’amica, che ha concretamente costruito il blog, abbiamo avuto modo di metterci in contatto con persone altrimenti difficili da raggiungere e allargato il circuito di contatti e conoscenze, producendo un effetto a cerchi concentrici di informazioni, proposte, decisioni che via via venivano prese, all’interno del nostro gruppo, con le maestre, nella scuola, con il Coogen e con i gruppi di genitori e insegnanti delle altre scuole di Torino.
Intorno a me rispetto a tutto questo vedo come due mondi, se non contrapposti paralleli.
Da una parte c’è un mondo in fermento che reagisce, pensa, elabora controproposte ed anche in seguito alla protesta per la legge Gemini sta riscoprendo coesione, responsabilità civile, solidarietà e comunicazione sociale.
Ma questo mondo convive con una sacca incredibilmente vasta e profonda di disinteresse e disinformazione, in molti casi peraltro coltivata ad hoc. Quello che non finisce di stupirmi è che molti genitori i cui bambini inizieranno il prossimo anno le elementari o sono alle materne e ai nidi e quindi diventeranno loro malgrado prima o poi protagonisti di questa storia, si comportano come se la legge Gelmini non li toccasse minimamente. Un atteggiamento che pare purtroppo radicato, a mio parere, e testimonia un sentire diffuso a livello sociale: queste famiglie, per possibilità economica o per scelta di vita, snobbano tranquillamente il problema come se non esistesse, tanto loro, e questa è l’affermazione purtroppo più diffusa, possono mandare il bambino in una scuola privata. Ad un’argomentazione umana e formativa si risponde con un’argomentazione prettamente economica: probabilmente, è questo lo zoccolo duro contro il quale rischia di infrangersi ogni tentativo di comunicazione e di mediazione.
Ma dopo tutto, anche questa fase rientra nell’alternanza ciclica della vita (e non solo politica), dunque mi dico: andiamo avanti nella quotidianità, senza fanatismi né rivelazioni, con rispetto, dignità, curiosità e gioia. Una semplice testimonianza di vita, dalla quale i nostri figli possano partire per disegnare la loro.
testimonianza raccolta il 3-12-2008
AS
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