mercoledì 25 febbraio 2009
4° puntata - L'avventurosa storia del Tempo Pieno raccontata da Guido Piraccini
A partire dal 1972, grazie alla Legge 820/71, il tempo pieno comincia a diffondersi come modello organizzativo e didattico a livello nazionale.
Ma torniamo a Torino. Tre anni dopo, nel 1975, si verifica qui una grande svolta politica: per la prima volta, in Comune, in Provincia e in Regione ci sono maggioranze di sinistra.
Queste maggioranze sostengono fortemente il neonato tempo pieno. Anche perché il Direttore Didattico Gianni Dolino, ex partigiano e consigliere comunale di minoranza con le maggioranze di destra, fa adesso parte della giunta del sindaco Novelli. Dolino, come Assessore all’Istruzione, imprime alla macchina comunale il peso della propria cultura e della propria esperienza in campo educativo: ad esempio, mette a disposizione delle scuole le strutture pubbliche cittadine più diverse, traducendo nella pratica quello che il pedagogista Francesco De Bartolomeis aveva elaborato nei suoi testi.
Si pensi a “La ricerca come antipedagogia” (Feltrinelli, Milano 1969) in cui l’autore sostiene la necessità di una scuola capace di misurarsi con aspetti della realtà che non sempre sono disponibili nello spazio chiuso delle aule scolastiche e promuove l’esperienza di una “scuola attiva”, individuando nel metodo della ricerca la via da percorrere per colmare il divario tra ciò che gli allievi producono e quanto sarebbero in grado di produrre se tutte le loro potenzialità fossero sviluppate. Si pensi anche ad un altro libro di De Bartolomeis, “Fare scuola fuori dalla scuola. Orientamenti pratici per un nuovo tempo pieno” (Stampatori, 1980), titolo evocativo di un modo nuovo di insegnare che valorizza l’apertura dei saperi scolastici verso i saperi sociali e la realizzazione di esperienze formative fuori dalla scuola.
Ebbene, la sintonia tra il fare scuola fuori dalla scuola, l’orientamento pedagogico che sostiene già in età infantile l’apertura verso il mondo sociale, il tempo pieno, la messa a disposizione di strutture pubbliche, diventano un tutt’uno che prende la foma di un grande laboratorio di entusiasmi e di conquiste sul piano degli apprendimenti. Quindi, nato come fenomeno circoscritto ai bisognosi nei quartieri più critici della città – il quartiere Vallette, c.so Taranto, il quartiere Barriera di Milano – il tempo pieno diventa un modello ambito da famiglie che non abitano in quei quartieri ma che decidono di iscrivere i propri figli in quelle scuole di periferia, producendo una commistione sociale estremamente importante e interessante.
Nel 1975 viene avviata anche l’iniziativa delle mense scolastiche comunali.
Prima di allora in ogni scuola elementare erano le bidelle cuoche a provvedere ai servizi di refezione. Ma aumentando il numero degli alunni che si fermano il pomeriggio e dunque restano a mangiare a scuola, la refezione scolastica diventa un punto sensibile della nuova offerta formativa. La mensa scolastica è infatti un elemento importantissimo per la riuscita del tempo pieno, perché una mensa di buon livello è una delle garanzie che le 40 ore possano svolgersi senza inconvenienti di sorta. Ecco allora l’importanza della scelta della giunta Novelli di affidare le mense a ditte esterne specializzate e in grado di rispettare tutti gli standard igienico-sanitari del caso.
Fu questo un momento di grossa discussione, perché da una parte c’era chi sosteneva che la qualità della cucina poteva essere garantita solo dalla presenza di una cuoca interna alla scuola, e chi dall’altra, guardando al numero di coloro che fruivano del tempo pieno, affermava che ci voleva personale preparato e specializzato per far fronte agli obblighi igienico-sanitari dettati da tali numeri.
Inoltre, proprio in questi anni a Torino molti giovani usciti dalle università, anziché dedicarsi all’insegnamento, cominciano a occuparsi di animazione sociale e mettono a disposizione della scuola la loro capacità di creare e movimentare. Da parte sua, il Comune di Torino mette a disposizione delle scuole della città un centinaio di animatori sociali, che danno supporto alla dinamica didattica ed educativa prevista dal tempo pieno, la quale aveva bisogno di disporre di competenze innovative.
“Io ero l’albero (tu il cavallo)” è il titolo di un libro esemplare del 1978 che raccoglie esperienze di gioco teatrale nella scuola condotte da Franco Passatore e altri e contiene indicazioni metodologiche straordinarie per l’educatore e per un nuovo modo di porsi nei confronti del bambino, degli adulti e di se stesso.
Ma torniamo a Torino. Tre anni dopo, nel 1975, si verifica qui una grande svolta politica: per la prima volta, in Comune, in Provincia e in Regione ci sono maggioranze di sinistra.
Queste maggioranze sostengono fortemente il neonato tempo pieno. Anche perché il Direttore Didattico Gianni Dolino, ex partigiano e consigliere comunale di minoranza con le maggioranze di destra, fa adesso parte della giunta del sindaco Novelli. Dolino, come Assessore all’Istruzione, imprime alla macchina comunale il peso della propria cultura e della propria esperienza in campo educativo: ad esempio, mette a disposizione delle scuole le strutture pubbliche cittadine più diverse, traducendo nella pratica quello che il pedagogista Francesco De Bartolomeis aveva elaborato nei suoi testi.
Si pensi a “La ricerca come antipedagogia” (Feltrinelli, Milano 1969) in cui l’autore sostiene la necessità di una scuola capace di misurarsi con aspetti della realtà che non sempre sono disponibili nello spazio chiuso delle aule scolastiche e promuove l’esperienza di una “scuola attiva”, individuando nel metodo della ricerca la via da percorrere per colmare il divario tra ciò che gli allievi producono e quanto sarebbero in grado di produrre se tutte le loro potenzialità fossero sviluppate. Si pensi anche ad un altro libro di De Bartolomeis, “Fare scuola fuori dalla scuola. Orientamenti pratici per un nuovo tempo pieno” (Stampatori, 1980), titolo evocativo di un modo nuovo di insegnare che valorizza l’apertura dei saperi scolastici verso i saperi sociali e la realizzazione di esperienze formative fuori dalla scuola.
Ebbene, la sintonia tra il fare scuola fuori dalla scuola, l’orientamento pedagogico che sostiene già in età infantile l’apertura verso il mondo sociale, il tempo pieno, la messa a disposizione di strutture pubbliche, diventano un tutt’uno che prende la foma di un grande laboratorio di entusiasmi e di conquiste sul piano degli apprendimenti. Quindi, nato come fenomeno circoscritto ai bisognosi nei quartieri più critici della città – il quartiere Vallette, c.so Taranto, il quartiere Barriera di Milano – il tempo pieno diventa un modello ambito da famiglie che non abitano in quei quartieri ma che decidono di iscrivere i propri figli in quelle scuole di periferia, producendo una commistione sociale estremamente importante e interessante.
Nel 1975 viene avviata anche l’iniziativa delle mense scolastiche comunali.
Prima di allora in ogni scuola elementare erano le bidelle cuoche a provvedere ai servizi di refezione. Ma aumentando il numero degli alunni che si fermano il pomeriggio e dunque restano a mangiare a scuola, la refezione scolastica diventa un punto sensibile della nuova offerta formativa. La mensa scolastica è infatti un elemento importantissimo per la riuscita del tempo pieno, perché una mensa di buon livello è una delle garanzie che le 40 ore possano svolgersi senza inconvenienti di sorta. Ecco allora l’importanza della scelta della giunta Novelli di affidare le mense a ditte esterne specializzate e in grado di rispettare tutti gli standard igienico-sanitari del caso.
Fu questo un momento di grossa discussione, perché da una parte c’era chi sosteneva che la qualità della cucina poteva essere garantita solo dalla presenza di una cuoca interna alla scuola, e chi dall’altra, guardando al numero di coloro che fruivano del tempo pieno, affermava che ci voleva personale preparato e specializzato per far fronte agli obblighi igienico-sanitari dettati da tali numeri.
Inoltre, proprio in questi anni a Torino molti giovani usciti dalle università, anziché dedicarsi all’insegnamento, cominciano a occuparsi di animazione sociale e mettono a disposizione della scuola la loro capacità di creare e movimentare. Da parte sua, il Comune di Torino mette a disposizione delle scuole della città un centinaio di animatori sociali, che danno supporto alla dinamica didattica ed educativa prevista dal tempo pieno, la quale aveva bisogno di disporre di competenze innovative.
“Io ero l’albero (tu il cavallo)” è il titolo di un libro esemplare del 1978 che raccoglie esperienze di gioco teatrale nella scuola condotte da Franco Passatore e altri e contiene indicazioni metodologiche straordinarie per l’educatore e per un nuovo modo di porsi nei confronti del bambino, degli adulti e di se stesso.
AS
venerdì 23 gennaio 2009
3° puntata - L'avventurosa storia del Tempo Pieno raccontata da Guido Piraccini
Il primo embrione di tempo pieno, sorretto dal Comune, nasce dunque a Torino.
In contemporanea l’allora ministra democristiana alla Pubblica Istruzione, Falcucci, attenta ai fermenti sociali e del mondo della scuola per i motivi elencati nella puntata precedente, invia suoi ispettori in cinque scuole di Torino e a Trento affinché nasca una sperimentazione tutta statale di questo nuovo modello. E’ il 1970.
Perché si scelse Torino e Trento? Immagino perché il movimento degli studenti e l’occupazione dell’università di Trento e l’occupazione di Palazzo Campana a Torino del ’67, tre anni prima, aveva reso le due città terreno fertile sul quale far attecchire iniziative sperimentali.
Per questa sperimentazione la ministra Falcucci coinvolge Francesco de Bartolomeis, il grande pedagogista torinese tuttora vivente.
Francesco de Bartolmeis, comunista, viene incaricato da una democristiana. Non si può non apprezzare la laicità della scelta della ministra.
Francesco de Bartolomeis in quegli anni era il deus ex machina della formazione degli insegnanti all’università di Torino; li formava sì nelle aule di Palazzo Nuovo, ma li formava soprattutto in un laboratorio che aveva fatto nascere in via Maria Vittoria, dove gli studenti universitari futuri maestri mettevano concretamente mano al mestiere: dalla pittura alla manipolazione della creta, alla lavorazione del legno, alle prime strumentazioni tecnologiche grazie anche al coinvolgimento dell’ assistente di de Bartolomeis, Pietro Simondo. Quel laboratorio di via Maria Vittoria fu fucina di molti insegnanti che poi si ritrovarono a lavorare al tempo pieno negli anni successivi.
Quindi, a Torino il tempo pieno statale parte in cinque scuole: ovviamente la Nino Costa alle Vallette, l’Ungaretti di corso Taranto dove io lavoravo, la Casati in corso Racconigi dove c’era come direttore didattico Gianni Dolino (di cui torneremo a parlare nelle prossime puntate), la Pestalozzi in piena Barriera di Milano.
Chi viene iscritto alle prime classi a tempo pieno? Si prende dall’elenco di coloro che erano iscritti ai doposcuola comunali.
I doposcuola comunali erano della formule per tenere a scuola anche al pomeriggio gli alunni più bisognosi sotto diversi profili, i quali venivano assistiti da personale comunale e inseriti in gruppi che accoglievano classi diverse: si trattava di un intervento slegato da fatti didattici che andava incontro principalmente a necessità socio-economiche.
Il modello di tempo pieno voluto dalla ministra Falcucci prevede invece due insegnanti statali che si organizzano nell’arco della settimana per garantire 40 ore di insegnamento. Si rafforzano così quelle forme di collaborazione che alla Nino Costa erano state la molla del rinnovamento didattico. Chi ha più competenze in un’area non insegna solo nella sua classe ma anche ad allievi di altre classi. Le compresenze tra insegnanti permettono di moltiplicare i gruppi di studio e i laboratori, consentono uscite didattiche in sicurezza, rendono più produttiva la giornata scolastica, diventando l’elemento più prezioso di tutta l’esperienza.
Dal momento che gli esiti della sperimentazione del tempo pieno sono giudicati da subito molto positivi, il governo emana la Legge 24 settembre 1971, n. 820 (Norme sull'ordinamento della scuola elementare e sulla immissione in ruolo degli insegnanti della scuola elementare e della scuola materna statale), che estende l’applicazione del tempo pieno a tutto il territorio nazionale.
La nuova legge mette le scuole nella condizione di poter scegliere di adottare o meno il tempo pieno; inoltre, mantiene la caratteristica propria della prima sperimentazione, ovvero la possibilità che il maestro titolare della classe si scelga l’insegnante partner, chiamandolo anche da altre scuole se all’interno della propria realtà scolastica non ve ne sono di disponibili, in modo tale da poter garantire 40 ore settimanali di insegnamento condiviso sotto il profilo educativo, culturale e didattico.
In contemporanea l’allora ministra democristiana alla Pubblica Istruzione, Falcucci, attenta ai fermenti sociali e del mondo della scuola per i motivi elencati nella puntata precedente, invia suoi ispettori in cinque scuole di Torino e a Trento affinché nasca una sperimentazione tutta statale di questo nuovo modello. E’ il 1970.
Perché si scelse Torino e Trento? Immagino perché il movimento degli studenti e l’occupazione dell’università di Trento e l’occupazione di Palazzo Campana a Torino del ’67, tre anni prima, aveva reso le due città terreno fertile sul quale far attecchire iniziative sperimentali.
Per questa sperimentazione la ministra Falcucci coinvolge Francesco de Bartolomeis, il grande pedagogista torinese tuttora vivente.
Francesco de Bartolmeis, comunista, viene incaricato da una democristiana. Non si può non apprezzare la laicità della scelta della ministra.
Francesco de Bartolomeis in quegli anni era il deus ex machina della formazione degli insegnanti all’università di Torino; li formava sì nelle aule di Palazzo Nuovo, ma li formava soprattutto in un laboratorio che aveva fatto nascere in via Maria Vittoria, dove gli studenti universitari futuri maestri mettevano concretamente mano al mestiere: dalla pittura alla manipolazione della creta, alla lavorazione del legno, alle prime strumentazioni tecnologiche grazie anche al coinvolgimento dell’ assistente di de Bartolomeis, Pietro Simondo. Quel laboratorio di via Maria Vittoria fu fucina di molti insegnanti che poi si ritrovarono a lavorare al tempo pieno negli anni successivi.
Quindi, a Torino il tempo pieno statale parte in cinque scuole: ovviamente la Nino Costa alle Vallette, l’Ungaretti di corso Taranto dove io lavoravo, la Casati in corso Racconigi dove c’era come direttore didattico Gianni Dolino (di cui torneremo a parlare nelle prossime puntate), la Pestalozzi in piena Barriera di Milano.
Chi viene iscritto alle prime classi a tempo pieno? Si prende dall’elenco di coloro che erano iscritti ai doposcuola comunali.
I doposcuola comunali erano della formule per tenere a scuola anche al pomeriggio gli alunni più bisognosi sotto diversi profili, i quali venivano assistiti da personale comunale e inseriti in gruppi che accoglievano classi diverse: si trattava di un intervento slegato da fatti didattici che andava incontro principalmente a necessità socio-economiche.
Il modello di tempo pieno voluto dalla ministra Falcucci prevede invece due insegnanti statali che si organizzano nell’arco della settimana per garantire 40 ore di insegnamento. Si rafforzano così quelle forme di collaborazione che alla Nino Costa erano state la molla del rinnovamento didattico. Chi ha più competenze in un’area non insegna solo nella sua classe ma anche ad allievi di altre classi. Le compresenze tra insegnanti permettono di moltiplicare i gruppi di studio e i laboratori, consentono uscite didattiche in sicurezza, rendono più produttiva la giornata scolastica, diventando l’elemento più prezioso di tutta l’esperienza.
Dal momento che gli esiti della sperimentazione del tempo pieno sono giudicati da subito molto positivi, il governo emana la Legge 24 settembre 1971, n. 820 (Norme sull'ordinamento della scuola elementare e sulla immissione in ruolo degli insegnanti della scuola elementare e della scuola materna statale), che estende l’applicazione del tempo pieno a tutto il territorio nazionale.
La nuova legge mette le scuole nella condizione di poter scegliere di adottare o meno il tempo pieno; inoltre, mantiene la caratteristica propria della prima sperimentazione, ovvero la possibilità che il maestro titolare della classe si scelga l’insegnante partner, chiamandolo anche da altre scuole se all’interno della propria realtà scolastica non ve ne sono di disponibili, in modo tale da poter garantire 40 ore settimanali di insegnamento condiviso sotto il profilo educativo, culturale e didattico.
AS
martedì 13 gennaio 2009
2° puntata – L’avventurosa storia del Tempo Pieno raccontata da Guido Piraccini
Sul finire degli anni ‘60, alla scuola elementare Nino Costa delle Vallette qui a Torino, il maestro Fiorenzo Alfieri (ndr. oggi Fiorenzo Alfieri è Assessore alla Cultura al Comune di Torino), la maestra Daria Ridolfi e tanti altri giovani insegnanti diedero vita all’embrione del futuro tempo pieno promuovendo la collaborazione tra i maestri. Chi aveva una maggiore propensione per determinate aree di insegnamento non se ne occupava soltanto all’interno della propria classe ma andava ad insegnare anche nelle altre, e per potere fare tutto e bene, con tempi distesi, questo gruppo di insegnanti sente la necessità di stare a scuola con i propri alunni anche al pomeriggio…
Perché il tempo pieno nacque nel quartiere delle Vallette?
Perché in quel periodo gli insegnanti giovani erano destinati alle periferie, mentre gli insegnanti più anziani avevano saldamente in mano le scuole del centro. E quindi quasi fortuitamente nelle periferie si concentrarono figure di giovani maestri, molto attenti ai fenomeni non soltanto scolastici ma più in generale culturali e sociali. Era la stessa società di quegli anni, con i suoi movimenti e la sua evoluzione, che imponeva attenzione alle sue problematiche. Basti pensare che nel 1967 nasce il movimento degli studenti e occupa le Università di Trento e di Torino, nel 1968 il movimento degli studenti esplode in tutta Europa e il movimento sindacale dà vita a grandi azioni rivendicative….
Alla Nino Costa, il tempo scuola di quattro ore, per una scuola così organizzata, risulta subito ristretto e gli insegnanti cominciano a fermarsi a scuola anche al pomeriggio. Il primo tempo pieno della Nino Costa nasce quindi da esigenze didattiche ma si proietta all’esterno della scuola, come fatto sociale che viene immediatamente sostenuto a spada tratta dai genitori. Il tempo pieno dà infatti un grosso aiuto a quelle famiglie, appena arrivate dal sud, in cui spesso i genitori lavoravano entrambi e per le quali collocare i figli al pomeriggio non era semplice. Allora ben vengano questi maestri che ci tengono i figli anche il pomeriggio.
I genitori della Nino Costa capiscono che se i maestri si fermano a scuola di più è perché vogliono bene ai bambini e li sostengono in una rivendicazione che gli stessi insegnanti fanno al Comune di Torino: Comune di Torino dacci una mano a organizzare tutto questo.
E il Comune di Torino dà una mano, la giunta democristiana sostiene questo tempo pieno, che non è più un fatto solo didattico, ma ormai sociale, che non si può ignorare.
Siamo nel 1969: il partito democristiano di allora non poteva non risentire al proprio interno dei segnali che la dinamica culturale innescata da Don Milani aveva lasciato. Per non dire del successo del grande movimento in Toscana dei giovani cattolici che in quegli anni organizzavano doposcuola dentro ogni parrocchia e dove le parrocchie erano chiuse e ostili - perché legate al cardinale Florit che aveva mandato in esilio a Barbiana il famoso Don Milani - i giovani cattolici andavano senza paura a fare il doposcuola dentro le Case Del Popolo.
I fermenti sociali di quegli anni fecero sì che i politici più attenti non si ponessero in termini di contrasto o negazione di questi fenomeni ma che considerassero e assumessero una parte di ciò che veniva rivendicato, e che ciò si traducesse poi in azioni a sostegno. Questo succede quando l’intelligenza non fa difetto in chi governa o quando l’intelligenza non viene usata soltanto per accumulare.
Questi sono gli elementi che indussero il mondo democristiano a dare aiuto agli insegnanti e ai genitori della Nino Costa organizzando per loro la mensa scolastica in modo da garantire il tempo pieno.
Perché il tempo pieno nacque nel quartiere delle Vallette?
Perché in quel periodo gli insegnanti giovani erano destinati alle periferie, mentre gli insegnanti più anziani avevano saldamente in mano le scuole del centro. E quindi quasi fortuitamente nelle periferie si concentrarono figure di giovani maestri, molto attenti ai fenomeni non soltanto scolastici ma più in generale culturali e sociali. Era la stessa società di quegli anni, con i suoi movimenti e la sua evoluzione, che imponeva attenzione alle sue problematiche. Basti pensare che nel 1967 nasce il movimento degli studenti e occupa le Università di Trento e di Torino, nel 1968 il movimento degli studenti esplode in tutta Europa e il movimento sindacale dà vita a grandi azioni rivendicative….
Alla Nino Costa, il tempo scuola di quattro ore, per una scuola così organizzata, risulta subito ristretto e gli insegnanti cominciano a fermarsi a scuola anche al pomeriggio. Il primo tempo pieno della Nino Costa nasce quindi da esigenze didattiche ma si proietta all’esterno della scuola, come fatto sociale che viene immediatamente sostenuto a spada tratta dai genitori. Il tempo pieno dà infatti un grosso aiuto a quelle famiglie, appena arrivate dal sud, in cui spesso i genitori lavoravano entrambi e per le quali collocare i figli al pomeriggio non era semplice. Allora ben vengano questi maestri che ci tengono i figli anche il pomeriggio.
I genitori della Nino Costa capiscono che se i maestri si fermano a scuola di più è perché vogliono bene ai bambini e li sostengono in una rivendicazione che gli stessi insegnanti fanno al Comune di Torino: Comune di Torino dacci una mano a organizzare tutto questo.
E il Comune di Torino dà una mano, la giunta democristiana sostiene questo tempo pieno, che non è più un fatto solo didattico, ma ormai sociale, che non si può ignorare.
Siamo nel 1969: il partito democristiano di allora non poteva non risentire al proprio interno dei segnali che la dinamica culturale innescata da Don Milani aveva lasciato. Per non dire del successo del grande movimento in Toscana dei giovani cattolici che in quegli anni organizzavano doposcuola dentro ogni parrocchia e dove le parrocchie erano chiuse e ostili - perché legate al cardinale Florit che aveva mandato in esilio a Barbiana il famoso Don Milani - i giovani cattolici andavano senza paura a fare il doposcuola dentro le Case Del Popolo.
I fermenti sociali di quegli anni fecero sì che i politici più attenti non si ponessero in termini di contrasto o negazione di questi fenomeni ma che considerassero e assumessero una parte di ciò che veniva rivendicato, e che ciò si traducesse poi in azioni a sostegno. Questo succede quando l’intelligenza non fa difetto in chi governa o quando l’intelligenza non viene usata soltanto per accumulare.
Questi sono gli elementi che indussero il mondo democristiano a dare aiuto agli insegnanti e ai genitori della Nino Costa organizzando per loro la mensa scolastica in modo da garantire il tempo pieno.
lunedì 12 gennaio 2009
Marisa, una bambina di sette anni
Mi chiamo Marisa e sono la mamma di una bambina che frequenta la seconda alla scuola elementare Sclopis di via del Carmine a Torino.
La motivazione che ci ha portato a scegliere il tempo pieno è legata all’esigenza di offrire a nostra figlia una scuola in cui oltre al programma “tradizionale” venisse proposta anche tutta una serie di attività collaterali importanti per costruire ed arricchire il suo bagaglio umano e culturale. Una scuola che le permettesse di stare più tempo con i compagni e oltre alle ore prettamente dedicate ad imparare a leggere a scrivere a contare e all’esercitazione, le desse il modo di confrontarsi con gli altri e con i diversi aspetti della vita, di compiere visite ai musei, seguire laboratori, uscire nella città, slegata dalla relazione esclusiva con papà e mamma, per cimentarsi autonomamente e individualmente con il mondo esterno alla famiglia attraverso le figure delle insegnanti, altri adulti o il gruppo dei suoi compagni.
Eravamo alla ricerca di una scuola che offrisse un programma ricco di iniziative valide, e non solo di riempitivi del tempo. Anche se noi lavoriamo entrambi, non si trattava tanto di avere nostra figlia “sistemata” a scuola anche al pomeriggio, quanto di darle l’occasione per sperimentare tutto ciò e comprendere il grande valore dell’arte, della natura e della relazione con gli altri.
Magari i detrattori del tempo pieno direbbero che tutto ciò costituisce un di più e che ciò che conta è imparare a leggere e a scrivere. Per rispondere loro userei una frase che considero un po’ come il leit-motiv della mia vita: esiste un’intelligenza di cuore e un’intelligenza di studio.
Ritengo fondamentale la compenetrazione dei due aspetti. Ma, soprattutto, per me è importante stimolare in nostra figlia un’intelligenza di cuore, cioè la capacità di percepire, di arrivare alle cose sviluppando i propri canali, cercando in se stessa modi, risposte, atteggiamenti. Perché, indipendentemente dal grado di istruzione che avrà, rimane importante che cresca una persona autentica, che impari l’importanza di conoscersi per quanto possibile, aperta e curiosa dell’esistenza, rispettosa degli altri. Questo è quello che chiamo intelligenza di cuore.
Per noi la scuola a tempo pieno rappresenta tutto questo. Perché l’intelligenza di cuore può essere stimolata solo da un tempo più disteso e da una didattica che offre un certo tipo di apprendimento ed esperienza. Si può mettere un bambino alla scrivania e insegnargli a leggere e scrivere e far di conto, gli si può chiedere un’emulazione o un’imitazione, ma c’è tutto un mondo e tutta una serie di prospettive che non si possono trasmettere in questo modo. Ciascuno di noi coltiva una propria idea dei figli, delle speranze e dei sogni che riponiamo in loro: noi non vogliamo una “figlia-specchio”, che cresce imitando i genitori o l’insegnante, ma una bambina che, pur con tutti i suoi limiti e le sue debolezze, sviluppi il proprio bisogno di capire, di conoscere, di imparare, di vivere.
Si può fare matematica misurando via via quanto cresce la piantina che è stata seminata nel vaso sul davanzale della finestra dell’aula; geometria con la visita ad un museo o ad un palazzo ravvedendo all’interno della struttura architettonica le forme geometriche, magari in un’ogiva, in una finestra, in un portone, o nel tappeto dell’entrata; si può fare geografia contrassegnando sull’atlante i diversi paesi di provenienza dei bambini che frequentano la scuola. Sono tutte modalità probabilmente aliene da un certo approccio tradizionale, che però si pongono sullo stesso piano cognitivo dei bambini e, assecondandolo, lo stimolano. Secondo me è molto importante riuscire a comunicare con i bambini, in modo che si sentano capiti da noi adulti e sentano apprezzata le loro modalità di apprendimento, senza sentirsi psicologicamente in dovere di adeguarsi alle nostre. E’ basilare, proprio per rispetto del loro pensiero e personalità in formazione.
Alla Sclopis abbiamo trovato questo tipo di scuola ed abbiamo anche avuto la fortuna di incontrare due maestre molto preparate e molto agguerrite - in senso positivo!, certo - che si sono prodigate da subito in mille modi e senza forzature per arricchire quanto più il bagaglio culturale e umano dei nostri figli e creare all’interno della classe un clima molto bello e un’atmosfera molto serena, facilitando l’inserimento di tutti i bambini, anche di quelli stranieri arrivati da poco in Italia. Le maestre hanno subito cercato un confronto diretto con noi genitori, al quale noi genitori abbiamo risposto con grande fervore, traducendosi in una bella intesa. Siamo quindi più che soddisfatti.
Ma se mi prefiguro una scuola a 24 ore, a tempo breve, vedo dei grossi rischi. Detto in modo franco, quello che ci aspetta è sostanzialmente una situazione di assoluta casualità, che potrà essere fortunata o sfortunata indipendentemente da ogni logica didattica.
Nel migliore nei casi ai bambini sarà data una bella infarinatura di programmi che peraltro sono già stati tagliati dalla riforma Moratti: se ci andrà bene, dalle 24 ore i nostri figli ricaveranno una formazione da Bignami, lacunosa e teorica, lontana dal loro reale contesto di vita, slegata dalla dimensione storica, sociale, di territorio, in cui si trovano a vivere.
Nel peggiore dei casi, dipenderà tutto dal tipo di insegnante. Perché se c’è un insegnante particolarmente legato all’osservanza dei programmi ministeriali, allora si avrà quello che è sempre successo anche in passato, ossia la maestra che “corre” in avanti e arriva alla fine dell’anno con quei pochi che capiscono, che sono svegli, intuitivi e ricettivi, e lascia il resto della classe a barcamenarsi come può. Oppure, si avrà la maestra che passa la maggior parte del tempo a dare le famose note (che continuano a riscuotere molto successo anche presso molte insegnanti delle generazioni più giovani), terrorizzando i bambini, che ben presto impareranno a ripetere pedestremente ciò che lei desidera pur di non ricevere continuamente votacci sul diario. Oppure ancora il caso della maestra - purtroppo mi dispiace dirlo, io che sono stata per un lungo periodo un’insegnante di liceo e universitaria - che si “sdraierà” comodamente sui programmi e darà ai bambini la lettura a memoria da pagina 3 a pagina 5: questo produrrà tanti piccoli replicanti diligenti che avranno sì un buon voto di condotta, ma il cui sviluppo, il cui livello di apprendimento e maturazione psicologico e umano saranno seriamente compromessi.
Un repertorio che quelli della mia generazione hanno già visto, ci siamo passati per esperienza diretta. Io per fortuna ho avuto una maestra straordinaria, però già per il mio compagno non è stato lo stesso, faceva i compiti a casa con la mamma, per fortuna anche lei insegnante, perché a scuola aveva una maestra che al minimo volare di mosca mollava ceffoni e obbligava i bambini a ripetere per pagine intere le vocali. E’ un déja-vu tremendo, quello che ci aspetta.
Noi abbiamo un’unica figlia e probabilmente i nostri attuali governanti mi direbbero: non preoccuparti per lei, perché ti garantiamo che finirà le sue elementari con il tempo pieno. Però io sono portata a dire comunque NO; mi porta a dire NO un’innata propensione per la comunità sociale: nessuno di noi si può concepire al di fuori di essa, nel bene e nel male.
Secondo me abolire il tempo pieno significa infatti innescare tutta una serie di risvolti discriminatori, antisociali, antiumanistici e antidemocratici, mascherati, tra l’altro neppure troppo bene, dietro questa legge. A ben vedere, infatti, non significa soltanto scegliere e pronunciarsi per una classe, quella dei cosiddetti migliori, fortunati, eletti, perché ad essere lasciate fuori non saranno solo quelle categorie che ci vengono automaticamente in mente (stranieri, poveri, bambini che hanno meno capacità cognitive e intellettive: cioè, le rappresentazioni tradizionali del diverso/ debole), ma potenzialmente tutti coloro che non si adegueranno al modello imposto. Questo a mio parere costituisce, o implica, una spaccatura tra un “noi” e un “loro” che è da rifiutare a priori. Io tendo alla convivenza, al rispetto, e non posso pensare a una scuola che alleva nostra figlia come una piccola egocentrica, insensibile a tutto ciò che non riguarda il suo mondo o il suo interesse personale.
Per esprimere il mio NO, insieme al gruppo di genitori e amici con i quali condivo una visione complessiva di vita, ci siamo sentiti spinti dall’esigenza e dal dovere di fare qualcosa, di non accettare supinamente quello che ci veniva propinato. Per formazione e affinità siamo tutti portati a confrontarci, ad assumerci in forma diversa la responsabilità, a porci la famosa domanda “che fare?”. In coordinamento con il Coogen di Torino (www.coogen.org), abbiamo iniziato a organizzare degli incontri di sensibilizzazione e informazione, anche con il sostegno del corpo insegnante della nostra scuola, che devo dire ha agito con fervore e disponibilità.
Sostanzialmente, abbiamo riscontrato due diversi fenomeni: da una parte, un preoccupante livello di mancanza di interesse per una riforma poi diventata legge che prevedeva tutta una serie di misure capestro, fondata sulla mancanza di informazione. Dall’altra, un profondo senso di disorientamento e di impotenza, da noi stessi provato. E’ stato anzi per affrontare e dare un senso a questa sensazione e mantenere un grado di dignità e responsabilità civile, che abbiamo iniziato ad agire sul territorio e organizzare degli incontri sia alle materna che alle elementari del quartiere.
Abbiamo inoltre creato quello che a mio parere è uno strumento fondamentale di comunicazione, di informazione, di confronto e di dibattito: il blog “Le mie maestre sono già uniche”. Grazie alla competenza di un’amica, che ha concretamente costruito il blog, abbiamo avuto modo di metterci in contatto con persone altrimenti difficili da raggiungere e allargato il circuito di contatti e conoscenze, producendo un effetto a cerchi concentrici di informazioni, proposte, decisioni che via via venivano prese, all’interno del nostro gruppo, con le maestre, nella scuola, con il Coogen e con i gruppi di genitori e insegnanti delle altre scuole di Torino.
Intorno a me rispetto a tutto questo vedo come due mondi, se non contrapposti paralleli.
Da una parte c’è un mondo in fermento che reagisce, pensa, elabora controproposte ed anche in seguito alla protesta per la legge Gemini sta riscoprendo coesione, responsabilità civile, solidarietà e comunicazione sociale.
Ma questo mondo convive con una sacca incredibilmente vasta e profonda di disinteresse e disinformazione, in molti casi peraltro coltivata ad hoc. Quello che non finisce di stupirmi è che molti genitori i cui bambini inizieranno il prossimo anno le elementari o sono alle materne e ai nidi e quindi diventeranno loro malgrado prima o poi protagonisti di questa storia, si comportano come se la legge Gelmini non li toccasse minimamente. Un atteggiamento che pare purtroppo radicato, a mio parere, e testimonia un sentire diffuso a livello sociale: queste famiglie, per possibilità economica o per scelta di vita, snobbano tranquillamente il problema come se non esistesse, tanto loro, e questa è l’affermazione purtroppo più diffusa, possono mandare il bambino in una scuola privata. Ad un’argomentazione umana e formativa si risponde con un’argomentazione prettamente economica: probabilmente, è questo lo zoccolo duro contro il quale rischia di infrangersi ogni tentativo di comunicazione e di mediazione.
Ma dopo tutto, anche questa fase rientra nell’alternanza ciclica della vita (e non solo politica), dunque mi dico: andiamo avanti nella quotidianità, senza fanatismi né rivelazioni, con rispetto, dignità, curiosità e gioia. Una semplice testimonianza di vita, dalla quale i nostri figli possano partire per disegnare la loro.
La motivazione che ci ha portato a scegliere il tempo pieno è legata all’esigenza di offrire a nostra figlia una scuola in cui oltre al programma “tradizionale” venisse proposta anche tutta una serie di attività collaterali importanti per costruire ed arricchire il suo bagaglio umano e culturale. Una scuola che le permettesse di stare più tempo con i compagni e oltre alle ore prettamente dedicate ad imparare a leggere a scrivere a contare e all’esercitazione, le desse il modo di confrontarsi con gli altri e con i diversi aspetti della vita, di compiere visite ai musei, seguire laboratori, uscire nella città, slegata dalla relazione esclusiva con papà e mamma, per cimentarsi autonomamente e individualmente con il mondo esterno alla famiglia attraverso le figure delle insegnanti, altri adulti o il gruppo dei suoi compagni.
Eravamo alla ricerca di una scuola che offrisse un programma ricco di iniziative valide, e non solo di riempitivi del tempo. Anche se noi lavoriamo entrambi, non si trattava tanto di avere nostra figlia “sistemata” a scuola anche al pomeriggio, quanto di darle l’occasione per sperimentare tutto ciò e comprendere il grande valore dell’arte, della natura e della relazione con gli altri.
Magari i detrattori del tempo pieno direbbero che tutto ciò costituisce un di più e che ciò che conta è imparare a leggere e a scrivere. Per rispondere loro userei una frase che considero un po’ come il leit-motiv della mia vita: esiste un’intelligenza di cuore e un’intelligenza di studio.
Ritengo fondamentale la compenetrazione dei due aspetti. Ma, soprattutto, per me è importante stimolare in nostra figlia un’intelligenza di cuore, cioè la capacità di percepire, di arrivare alle cose sviluppando i propri canali, cercando in se stessa modi, risposte, atteggiamenti. Perché, indipendentemente dal grado di istruzione che avrà, rimane importante che cresca una persona autentica, che impari l’importanza di conoscersi per quanto possibile, aperta e curiosa dell’esistenza, rispettosa degli altri. Questo è quello che chiamo intelligenza di cuore.
Per noi la scuola a tempo pieno rappresenta tutto questo. Perché l’intelligenza di cuore può essere stimolata solo da un tempo più disteso e da una didattica che offre un certo tipo di apprendimento ed esperienza. Si può mettere un bambino alla scrivania e insegnargli a leggere e scrivere e far di conto, gli si può chiedere un’emulazione o un’imitazione, ma c’è tutto un mondo e tutta una serie di prospettive che non si possono trasmettere in questo modo. Ciascuno di noi coltiva una propria idea dei figli, delle speranze e dei sogni che riponiamo in loro: noi non vogliamo una “figlia-specchio”, che cresce imitando i genitori o l’insegnante, ma una bambina che, pur con tutti i suoi limiti e le sue debolezze, sviluppi il proprio bisogno di capire, di conoscere, di imparare, di vivere.
Si può fare matematica misurando via via quanto cresce la piantina che è stata seminata nel vaso sul davanzale della finestra dell’aula; geometria con la visita ad un museo o ad un palazzo ravvedendo all’interno della struttura architettonica le forme geometriche, magari in un’ogiva, in una finestra, in un portone, o nel tappeto dell’entrata; si può fare geografia contrassegnando sull’atlante i diversi paesi di provenienza dei bambini che frequentano la scuola. Sono tutte modalità probabilmente aliene da un certo approccio tradizionale, che però si pongono sullo stesso piano cognitivo dei bambini e, assecondandolo, lo stimolano. Secondo me è molto importante riuscire a comunicare con i bambini, in modo che si sentano capiti da noi adulti e sentano apprezzata le loro modalità di apprendimento, senza sentirsi psicologicamente in dovere di adeguarsi alle nostre. E’ basilare, proprio per rispetto del loro pensiero e personalità in formazione.
Alla Sclopis abbiamo trovato questo tipo di scuola ed abbiamo anche avuto la fortuna di incontrare due maestre molto preparate e molto agguerrite - in senso positivo!, certo - che si sono prodigate da subito in mille modi e senza forzature per arricchire quanto più il bagaglio culturale e umano dei nostri figli e creare all’interno della classe un clima molto bello e un’atmosfera molto serena, facilitando l’inserimento di tutti i bambini, anche di quelli stranieri arrivati da poco in Italia. Le maestre hanno subito cercato un confronto diretto con noi genitori, al quale noi genitori abbiamo risposto con grande fervore, traducendosi in una bella intesa. Siamo quindi più che soddisfatti.
Ma se mi prefiguro una scuola a 24 ore, a tempo breve, vedo dei grossi rischi. Detto in modo franco, quello che ci aspetta è sostanzialmente una situazione di assoluta casualità, che potrà essere fortunata o sfortunata indipendentemente da ogni logica didattica.
Nel migliore nei casi ai bambini sarà data una bella infarinatura di programmi che peraltro sono già stati tagliati dalla riforma Moratti: se ci andrà bene, dalle 24 ore i nostri figli ricaveranno una formazione da Bignami, lacunosa e teorica, lontana dal loro reale contesto di vita, slegata dalla dimensione storica, sociale, di territorio, in cui si trovano a vivere.
Nel peggiore dei casi, dipenderà tutto dal tipo di insegnante. Perché se c’è un insegnante particolarmente legato all’osservanza dei programmi ministeriali, allora si avrà quello che è sempre successo anche in passato, ossia la maestra che “corre” in avanti e arriva alla fine dell’anno con quei pochi che capiscono, che sono svegli, intuitivi e ricettivi, e lascia il resto della classe a barcamenarsi come può. Oppure, si avrà la maestra che passa la maggior parte del tempo a dare le famose note (che continuano a riscuotere molto successo anche presso molte insegnanti delle generazioni più giovani), terrorizzando i bambini, che ben presto impareranno a ripetere pedestremente ciò che lei desidera pur di non ricevere continuamente votacci sul diario. Oppure ancora il caso della maestra - purtroppo mi dispiace dirlo, io che sono stata per un lungo periodo un’insegnante di liceo e universitaria - che si “sdraierà” comodamente sui programmi e darà ai bambini la lettura a memoria da pagina 3 a pagina 5: questo produrrà tanti piccoli replicanti diligenti che avranno sì un buon voto di condotta, ma il cui sviluppo, il cui livello di apprendimento e maturazione psicologico e umano saranno seriamente compromessi.
Un repertorio che quelli della mia generazione hanno già visto, ci siamo passati per esperienza diretta. Io per fortuna ho avuto una maestra straordinaria, però già per il mio compagno non è stato lo stesso, faceva i compiti a casa con la mamma, per fortuna anche lei insegnante, perché a scuola aveva una maestra che al minimo volare di mosca mollava ceffoni e obbligava i bambini a ripetere per pagine intere le vocali. E’ un déja-vu tremendo, quello che ci aspetta.
Noi abbiamo un’unica figlia e probabilmente i nostri attuali governanti mi direbbero: non preoccuparti per lei, perché ti garantiamo che finirà le sue elementari con il tempo pieno. Però io sono portata a dire comunque NO; mi porta a dire NO un’innata propensione per la comunità sociale: nessuno di noi si può concepire al di fuori di essa, nel bene e nel male.
Secondo me abolire il tempo pieno significa infatti innescare tutta una serie di risvolti discriminatori, antisociali, antiumanistici e antidemocratici, mascherati, tra l’altro neppure troppo bene, dietro questa legge. A ben vedere, infatti, non significa soltanto scegliere e pronunciarsi per una classe, quella dei cosiddetti migliori, fortunati, eletti, perché ad essere lasciate fuori non saranno solo quelle categorie che ci vengono automaticamente in mente (stranieri, poveri, bambini che hanno meno capacità cognitive e intellettive: cioè, le rappresentazioni tradizionali del diverso/ debole), ma potenzialmente tutti coloro che non si adegueranno al modello imposto. Questo a mio parere costituisce, o implica, una spaccatura tra un “noi” e un “loro” che è da rifiutare a priori. Io tendo alla convivenza, al rispetto, e non posso pensare a una scuola che alleva nostra figlia come una piccola egocentrica, insensibile a tutto ciò che non riguarda il suo mondo o il suo interesse personale.
Per esprimere il mio NO, insieme al gruppo di genitori e amici con i quali condivo una visione complessiva di vita, ci siamo sentiti spinti dall’esigenza e dal dovere di fare qualcosa, di non accettare supinamente quello che ci veniva propinato. Per formazione e affinità siamo tutti portati a confrontarci, ad assumerci in forma diversa la responsabilità, a porci la famosa domanda “che fare?”. In coordinamento con il Coogen di Torino (www.coogen.org), abbiamo iniziato a organizzare degli incontri di sensibilizzazione e informazione, anche con il sostegno del corpo insegnante della nostra scuola, che devo dire ha agito con fervore e disponibilità.
Sostanzialmente, abbiamo riscontrato due diversi fenomeni: da una parte, un preoccupante livello di mancanza di interesse per una riforma poi diventata legge che prevedeva tutta una serie di misure capestro, fondata sulla mancanza di informazione. Dall’altra, un profondo senso di disorientamento e di impotenza, da noi stessi provato. E’ stato anzi per affrontare e dare un senso a questa sensazione e mantenere un grado di dignità e responsabilità civile, che abbiamo iniziato ad agire sul territorio e organizzare degli incontri sia alle materna che alle elementari del quartiere.
Abbiamo inoltre creato quello che a mio parere è uno strumento fondamentale di comunicazione, di informazione, di confronto e di dibattito: il blog “Le mie maestre sono già uniche”. Grazie alla competenza di un’amica, che ha concretamente costruito il blog, abbiamo avuto modo di metterci in contatto con persone altrimenti difficili da raggiungere e allargato il circuito di contatti e conoscenze, producendo un effetto a cerchi concentrici di informazioni, proposte, decisioni che via via venivano prese, all’interno del nostro gruppo, con le maestre, nella scuola, con il Coogen e con i gruppi di genitori e insegnanti delle altre scuole di Torino.
Intorno a me rispetto a tutto questo vedo come due mondi, se non contrapposti paralleli.
Da una parte c’è un mondo in fermento che reagisce, pensa, elabora controproposte ed anche in seguito alla protesta per la legge Gemini sta riscoprendo coesione, responsabilità civile, solidarietà e comunicazione sociale.
Ma questo mondo convive con una sacca incredibilmente vasta e profonda di disinteresse e disinformazione, in molti casi peraltro coltivata ad hoc. Quello che non finisce di stupirmi è che molti genitori i cui bambini inizieranno il prossimo anno le elementari o sono alle materne e ai nidi e quindi diventeranno loro malgrado prima o poi protagonisti di questa storia, si comportano come se la legge Gelmini non li toccasse minimamente. Un atteggiamento che pare purtroppo radicato, a mio parere, e testimonia un sentire diffuso a livello sociale: queste famiglie, per possibilità economica o per scelta di vita, snobbano tranquillamente il problema come se non esistesse, tanto loro, e questa è l’affermazione purtroppo più diffusa, possono mandare il bambino in una scuola privata. Ad un’argomentazione umana e formativa si risponde con un’argomentazione prettamente economica: probabilmente, è questo lo zoccolo duro contro il quale rischia di infrangersi ogni tentativo di comunicazione e di mediazione.
Ma dopo tutto, anche questa fase rientra nell’alternanza ciclica della vita (e non solo politica), dunque mi dico: andiamo avanti nella quotidianità, senza fanatismi né rivelazioni, con rispetto, dignità, curiosità e gioia. Una semplice testimonianza di vita, dalla quale i nostri figli possano partire per disegnare la loro.
testimonianza raccolta il 3-12-2008
AS
mercoledì 7 gennaio 2009
1° puntata - L'avventurosa storia del Tempo Pieno raccontata da Guido Piraccini
Nei primi anni ’60, ancora all’università, ebbi l’avventura di entrare a insegnare nella neonata scuola media unica, varata proprio in quegli anni dal primo governo di centro-sinistra (Democrazia Cristiana e Partito Socialista).
Dato che la nuova scuola media unica o unificata - allora non si sapeva neanche bene come chiamarla - aveva bisogno di insegnanti e non ce n’erano a sufficienza, già chi era prossimo alla laurea veniva chiamato a insegnare. Fu così che entrai nel mondo della scuola.
Prima che venisse introdotto il modello della scuola media unica la stragrande maggioranza dei ragazzi non proseguiva dopo le elementari: pochissimi accedevano alla scuola media triennale dopo aver superato un difficile esame d’ammissione alla scuola media, pochi altri si iscrivevano all’avviamento al lavoro, tre anni successivi alle elementari, senza possibilità di proseguire oltre. La maggioranza dei ragazzi restava a casa o cominciava a lavorare.
Finalmente si dava seguito al dettato costituzionale che prevede almeno otto anni di istruzione obbligatoria e gratuiita per tutti
Ma il modello della nuova scuola media unica non teneva conto delle esperienze di sesta, settima e ottava, che avevano visto già negli anni cinquanta insegnanti elementari proseguire dopo la quinta elementare con alunni adolescenti e che erano state un successo proprio per la continuità tra i due percorsi scolastici. No, la scuola media unica venne come fotocopiata dal sistema della scuola secondaria che allora era la scuola delle élite, non la scuola di tutti e per tutti. E proprio perché la sua organizzazione deriva dall’impostazione del liceo, ancora oggi la scuola media è chiamata scuola secondaria di primo grado.
Benché, essendo pochi gli insegnanti in quel periodo, io abbia avuto la fortuna di insegnare lettere, educazione fisica ed educazione musicale, e quindi di fare un po’ il maestro, questa mia esperienza alla scuola media mi fece dire: tutto questo non fa per me, convinto che la frammentazione non è la proposta adatta per gli alunni nella fascia di età pre-adolescenziale.
Il 30 – 40% di allievi bocciati ogni anno fu il dato permanente della prima scuola media unica.
La “ Lettera ad una professoressa” di Don Milani, uscita nel 1967, colpì a sangue quel modello.
Quindi feci un’altra scelta ed entrai dentro alla scuola elementare.
Qui eravamo all’opposto della scuola media: finalmente il maestro governa un po’ tutto. Ma scoprii subito che il maestro unico è troppo solo.
Per fortuna, sul finire degli anni ’60 mi trasferii a Torino, e proprio qui a Torino, nel quartiere delle Vallette, dentro la scuola elementare Nino Costa un gruppo di bravissimi insegnanti si rese conto che alla solitudine del maestro si doveva dare soluzione.
Dato che la nuova scuola media unica o unificata - allora non si sapeva neanche bene come chiamarla - aveva bisogno di insegnanti e non ce n’erano a sufficienza, già chi era prossimo alla laurea veniva chiamato a insegnare. Fu così che entrai nel mondo della scuola.
Prima che venisse introdotto il modello della scuola media unica la stragrande maggioranza dei ragazzi non proseguiva dopo le elementari: pochissimi accedevano alla scuola media triennale dopo aver superato un difficile esame d’ammissione alla scuola media, pochi altri si iscrivevano all’avviamento al lavoro, tre anni successivi alle elementari, senza possibilità di proseguire oltre. La maggioranza dei ragazzi restava a casa o cominciava a lavorare.
Finalmente si dava seguito al dettato costituzionale che prevede almeno otto anni di istruzione obbligatoria e gratuiita per tutti
Ma il modello della nuova scuola media unica non teneva conto delle esperienze di sesta, settima e ottava, che avevano visto già negli anni cinquanta insegnanti elementari proseguire dopo la quinta elementare con alunni adolescenti e che erano state un successo proprio per la continuità tra i due percorsi scolastici. No, la scuola media unica venne come fotocopiata dal sistema della scuola secondaria che allora era la scuola delle élite, non la scuola di tutti e per tutti. E proprio perché la sua organizzazione deriva dall’impostazione del liceo, ancora oggi la scuola media è chiamata scuola secondaria di primo grado.
Benché, essendo pochi gli insegnanti in quel periodo, io abbia avuto la fortuna di insegnare lettere, educazione fisica ed educazione musicale, e quindi di fare un po’ il maestro, questa mia esperienza alla scuola media mi fece dire: tutto questo non fa per me, convinto che la frammentazione non è la proposta adatta per gli alunni nella fascia di età pre-adolescenziale.
Il 30 – 40% di allievi bocciati ogni anno fu il dato permanente della prima scuola media unica.
La “ Lettera ad una professoressa” di Don Milani, uscita nel 1967, colpì a sangue quel modello.
Quindi feci un’altra scelta ed entrai dentro alla scuola elementare.
Qui eravamo all’opposto della scuola media: finalmente il maestro governa un po’ tutto. Ma scoprii subito che il maestro unico è troppo solo.
Per fortuna, sul finire degli anni ’60 mi trasferii a Torino, e proprio qui a Torino, nel quartiere delle Vallette, dentro la scuola elementare Nino Costa un gruppo di bravissimi insegnanti si rese conto che alla solitudine del maestro si doveva dare soluzione.
(Nota biografica: Guido Piraccini è nato nel 1939. Ha insegnato per molti anni e dal 1979 al 2007 è stato Direttore Didattico del Circolo "Anna Frank" di Torino. Ha pubblicato articoli e saggi sul tempo pieno. E’ redattore della rubrica "Scuola e salute" sulla rivista "Promozione Salute" di CIPES Piemonte).
mercoledì 3 dicembre 2008
Giovanni, maestro a tempo pieno di 4a elementare
Ho 27 anni e insegno da tre.
Ho avuto da sempre la passione per l’insegnamento.
Per questo ho frequentato le magistrali, perché volevo insegnare. Poi, preso il diploma, mi sono iscritto all’università e mi sono laureato in psicologia, diventando psicologo della scuola.
Nonostante il mio 110 e lode non ho trovato lavoro in Sicilia, da dove provengo.
Pochi mesi dopo la laurea sono stato chiamato per la prima supplenza qui in Piemonte e così è cominciata l’avventura. Ti chiamano un giorno per l’altro e ti dicono: ha una supplenza, accetta? e tu su due piedi devi dare una risposta e decidere in un attimo se cambiare completamente la tua vita. Dici sì e nel frattempo vai a prendere la valigia. E lasci gli amici, la famiglia, la tua vita fino a quel momento.
Il primo anno ho lavorato in una scuola elementare di Moncalieri e come prima esperienza, sia con i colleghi sia con i bambini, è stata proprio bellissima. L’anno successivo sono stato mandato a Candiolo vicino a Torino e poi l’anno scorso sono arrivato alla Carducci, a Torino, una terza; quest’anno ho avuto la fortuna di continuare nella stessa scuola e di lavorare con la stessa classe. Dico fortuna perché per noi precari è già difficile avere un incarico per anno intero.
Io faccio il tempo pieno.
A differenza di tutto quello che viene raccontato in televisione dove passa l’idea che gli insegnanti stiano tutti in aula contemporaneamente e magari pure a fare niente, quando i bambini entrano in classe alle 8.30 e trovano un solo insegnante e non due. Stanno con quell’insegnante fino alle 12.30; all’ora di pranzo c’è il cambio con la collega, che porta la classe in mensa e fa poi le ore di scuola pomeridiane fino alle 16.30.
Non c’è compresenza tutti i giorni: voglio specificare che le ore di compresenza sono 4 su 40 ore alla settimana, 2 ore per ogni insegnante della classe.
Per quanto riguarda queste ore di compresenza, noi ci siamo organizzati in questo modo: le mie ore di compresenza le faccio con la collega di religione, perché svolgo attività alternativa di consolidamento e rinforzo con alcuni bambini che non seguono religione; queste due ore sono fondamentali perché si riesce ad avere un rapporto quasi individualizzato con i bambini che hanno bisogno di un recupero, il che è molto utile. La collega invece fa le sue due ore di compresenza quando io faccio lezione io e aiuta bambini che hanno maggiori difficoltà con la matematica.
Allora non direi proprio che queste ore di compresenza sono sprecate.
In classe mi piacciono la disciplina e le regole però mi piace anche la battuta, scherzare con gli alunni, fare l’intervallo con loro. Perché l’intervento educativo, con i bambini, passa anche dal gioco; per questo abbiamo detto a scuola siete in un gruppo, giocate insieme, imparavate a socializzare, e abbiamo proposto che portassero dei giochi da tavolo per l’intervallo, cosa che hanno fatto.
La scuola secondo me non deve fornire soltanto un pacchetto di nozioni di italiano e matematica: la scuola alla fine è una famiglia.
Questo si vede soprattutto quando si fanno esperienze fuori dai muri dell’aula. Un anno abbiamo portato i bambini di una seconda elementare tre giorni in Liguria. All’inizio io stesso ero spaventato, bambini così piccoli, farli dormire in albergo, non si addormenteranno mai senza la mamma, pensavo. Infatti la prima sera avevo tutti i bambini aggrappati al collo, maestro voglio la mamma; ma dall’indomani nessuno cercava più i genitori e tutti dicevano: maestro la prossima volta stiamo via molto di più!
Il bello di lavorare con i bambini è che quello che ciò che tu fai in classe è qualcosa che i bambini ricorderanno dopo anni, perché il periodo della scuola elementare è decisivo nella formazione della persona. Oltretutto, oggi più che un tempo, le famiglie sono più spesso in crisi, la figura del maestro come punto di riferimento - ma non unico! - è molto importante, soprattutto se si vive il rapporto con gli alunni con passione e non ci si limita al puro passaggio di nozioni.
Essere in due è poi fondamentale anche dal punto di vista dell’insegnante.
Perché un discorso è gestire certe problematiche da soli e un conto è gestirle insieme ad un collega. E’ ovviamente meglio essere in équipe: il fatto di confrontarsi, tu cosa fai, che metodo usi, oggi sono scoraggiato, il fatto di sostenersi a vicenda, il fatto di mettere insieme due professionalità, vuol dire farle crescere, rafforzarle, e lo stesso intervento educativo ne risulta rafforzato. E’ come dire: è meglio crescere un bambino da solo o crescerlo in due genitori, può esserci il genitore eccezionale, ma la differenza tra l’essere da soli e l’essere in due è innegabile.
Questo rispetto alle criticità, ma anche nelle situazioni positive essere in due serve. Pensiamo alle uscite sul territorio con tutta la classe, che se non ci sono due insegnanti non si possono fare. Pensiamo all’attività di programmazione e di preparazione, che è una parte del lavoro degli insegnanti che non si conosce affatto. Io e la mia collega facciamo una riunione fissa settimanale per organizzare insieme il da farsi: se per esempio un bambino durante la settimana non va bene, ci si rende conto parlando tra colleghi che si sono rilevate le stesse difficoltà, che magari il bambino in quel periodo sta vivendo un determinato problema e ci si dice potremmo fare così e così, avvisiamo i genitori, aspettiamo ancora un attimo, eccetera eccetera.
Adesso, con questa riforma, tutto questo viene messo in discussione.
Spesso, sono gli stessi bambini che chiedono: allora maestro è vero che l’anno prossimo sei licenziato? Vedono i cartelloni appesi a scuola, si informano e dicono che non vogliono un maestro solo ma due. Con loro cerco di spiegare ma senza fare politica in classe.
Per quanto riguarda i genitori, qualcuno si è detto a favore della riforma, qualcuno, spero la maggioranza, dalla parte degli insegnanti e delle loro preoccupazioni, sicuramente un loro supporto aiuterebbe, se non altro per l’umore.
Vado alle assemblee sindacali, alle assemblee dei precari, alle manifestazioni, sit-in in piazza, cortei, due scioperi in un mese, la manifestazione di Roma del 30 ottobre.
Anche tra i colleghi i pareri sono discordanti, tra aspettative speranze e rassegnazione.
Ma sento un’angoscia quotidiana, come un pensiero fisso: lavori con serietà, facendoti in quattro per dare il massimo, ma intanto sai che l’anno prossimo sarai mandato a casa come una cosa che non serve più e si butta via.
Io sto anche seguendo la specialistica all’università e lì da un anno all’altro le tasse sono più che triplicate, ho pagato da 400 a 1400 euro. Però quando poi hai un lavoro riesci a pagarti le tasse, ma quando il lavoro viene a mancare e l’università diventa sempre più di élite, a quel punto è proprio il sistema che viene meno.
Siamo precari: non abbiamo la sicurezza di avere la stessa classe ogni anno, ma lasciateci almeno quella di lavorare ogni anno. Perché sì, sei un precario, ma un minimo di certezza devi pur averlo: non dico in quale classe andrai il prossimo anno, ma almeno in quale città andrai a finire, quale lavoro andrai a fare… Soprattutto quando il tuo progetto era di fare questo lavoro, di farlo bene e di farlo per sempre, e ti tolgono anche la prospettiva che sì, fai sacrifici, lasci la famiglia, gli amici, la tua terra, ti trasferisci lontano, ma prima o poi ti stabilizzerai, allora diventa davvero dura, a 27 anni, vedersi negato completamente il proprio progetto di vita.
testimonianza raccolta il 26-11-08
AS
Ho avuto da sempre la passione per l’insegnamento.
Per questo ho frequentato le magistrali, perché volevo insegnare. Poi, preso il diploma, mi sono iscritto all’università e mi sono laureato in psicologia, diventando psicologo della scuola.
Nonostante il mio 110 e lode non ho trovato lavoro in Sicilia, da dove provengo.
Pochi mesi dopo la laurea sono stato chiamato per la prima supplenza qui in Piemonte e così è cominciata l’avventura. Ti chiamano un giorno per l’altro e ti dicono: ha una supplenza, accetta? e tu su due piedi devi dare una risposta e decidere in un attimo se cambiare completamente la tua vita. Dici sì e nel frattempo vai a prendere la valigia. E lasci gli amici, la famiglia, la tua vita fino a quel momento.
Il primo anno ho lavorato in una scuola elementare di Moncalieri e come prima esperienza, sia con i colleghi sia con i bambini, è stata proprio bellissima. L’anno successivo sono stato mandato a Candiolo vicino a Torino e poi l’anno scorso sono arrivato alla Carducci, a Torino, una terza; quest’anno ho avuto la fortuna di continuare nella stessa scuola e di lavorare con la stessa classe. Dico fortuna perché per noi precari è già difficile avere un incarico per anno intero.
Io faccio il tempo pieno.
A differenza di tutto quello che viene raccontato in televisione dove passa l’idea che gli insegnanti stiano tutti in aula contemporaneamente e magari pure a fare niente, quando i bambini entrano in classe alle 8.30 e trovano un solo insegnante e non due. Stanno con quell’insegnante fino alle 12.30; all’ora di pranzo c’è il cambio con la collega, che porta la classe in mensa e fa poi le ore di scuola pomeridiane fino alle 16.30.
Non c’è compresenza tutti i giorni: voglio specificare che le ore di compresenza sono 4 su 40 ore alla settimana, 2 ore per ogni insegnante della classe.
Per quanto riguarda queste ore di compresenza, noi ci siamo organizzati in questo modo: le mie ore di compresenza le faccio con la collega di religione, perché svolgo attività alternativa di consolidamento e rinforzo con alcuni bambini che non seguono religione; queste due ore sono fondamentali perché si riesce ad avere un rapporto quasi individualizzato con i bambini che hanno bisogno di un recupero, il che è molto utile. La collega invece fa le sue due ore di compresenza quando io faccio lezione io e aiuta bambini che hanno maggiori difficoltà con la matematica.
Allora non direi proprio che queste ore di compresenza sono sprecate.
In classe mi piacciono la disciplina e le regole però mi piace anche la battuta, scherzare con gli alunni, fare l’intervallo con loro. Perché l’intervento educativo, con i bambini, passa anche dal gioco; per questo abbiamo detto a scuola siete in un gruppo, giocate insieme, imparavate a socializzare, e abbiamo proposto che portassero dei giochi da tavolo per l’intervallo, cosa che hanno fatto.
La scuola secondo me non deve fornire soltanto un pacchetto di nozioni di italiano e matematica: la scuola alla fine è una famiglia.
Questo si vede soprattutto quando si fanno esperienze fuori dai muri dell’aula. Un anno abbiamo portato i bambini di una seconda elementare tre giorni in Liguria. All’inizio io stesso ero spaventato, bambini così piccoli, farli dormire in albergo, non si addormenteranno mai senza la mamma, pensavo. Infatti la prima sera avevo tutti i bambini aggrappati al collo, maestro voglio la mamma; ma dall’indomani nessuno cercava più i genitori e tutti dicevano: maestro la prossima volta stiamo via molto di più!
Il bello di lavorare con i bambini è che quello che ciò che tu fai in classe è qualcosa che i bambini ricorderanno dopo anni, perché il periodo della scuola elementare è decisivo nella formazione della persona. Oltretutto, oggi più che un tempo, le famiglie sono più spesso in crisi, la figura del maestro come punto di riferimento - ma non unico! - è molto importante, soprattutto se si vive il rapporto con gli alunni con passione e non ci si limita al puro passaggio di nozioni.
Essere in due è poi fondamentale anche dal punto di vista dell’insegnante.
Perché un discorso è gestire certe problematiche da soli e un conto è gestirle insieme ad un collega. E’ ovviamente meglio essere in équipe: il fatto di confrontarsi, tu cosa fai, che metodo usi, oggi sono scoraggiato, il fatto di sostenersi a vicenda, il fatto di mettere insieme due professionalità, vuol dire farle crescere, rafforzarle, e lo stesso intervento educativo ne risulta rafforzato. E’ come dire: è meglio crescere un bambino da solo o crescerlo in due genitori, può esserci il genitore eccezionale, ma la differenza tra l’essere da soli e l’essere in due è innegabile.
Questo rispetto alle criticità, ma anche nelle situazioni positive essere in due serve. Pensiamo alle uscite sul territorio con tutta la classe, che se non ci sono due insegnanti non si possono fare. Pensiamo all’attività di programmazione e di preparazione, che è una parte del lavoro degli insegnanti che non si conosce affatto. Io e la mia collega facciamo una riunione fissa settimanale per organizzare insieme il da farsi: se per esempio un bambino durante la settimana non va bene, ci si rende conto parlando tra colleghi che si sono rilevate le stesse difficoltà, che magari il bambino in quel periodo sta vivendo un determinato problema e ci si dice potremmo fare così e così, avvisiamo i genitori, aspettiamo ancora un attimo, eccetera eccetera.
Adesso, con questa riforma, tutto questo viene messo in discussione.
Spesso, sono gli stessi bambini che chiedono: allora maestro è vero che l’anno prossimo sei licenziato? Vedono i cartelloni appesi a scuola, si informano e dicono che non vogliono un maestro solo ma due. Con loro cerco di spiegare ma senza fare politica in classe.
Per quanto riguarda i genitori, qualcuno si è detto a favore della riforma, qualcuno, spero la maggioranza, dalla parte degli insegnanti e delle loro preoccupazioni, sicuramente un loro supporto aiuterebbe, se non altro per l’umore.
Vado alle assemblee sindacali, alle assemblee dei precari, alle manifestazioni, sit-in in piazza, cortei, due scioperi in un mese, la manifestazione di Roma del 30 ottobre.
Anche tra i colleghi i pareri sono discordanti, tra aspettative speranze e rassegnazione.
Ma sento un’angoscia quotidiana, come un pensiero fisso: lavori con serietà, facendoti in quattro per dare il massimo, ma intanto sai che l’anno prossimo sarai mandato a casa come una cosa che non serve più e si butta via.
Io sto anche seguendo la specialistica all’università e lì da un anno all’altro le tasse sono più che triplicate, ho pagato da 400 a 1400 euro. Però quando poi hai un lavoro riesci a pagarti le tasse, ma quando il lavoro viene a mancare e l’università diventa sempre più di élite, a quel punto è proprio il sistema che viene meno.
Siamo precari: non abbiamo la sicurezza di avere la stessa classe ogni anno, ma lasciateci almeno quella di lavorare ogni anno. Perché sì, sei un precario, ma un minimo di certezza devi pur averlo: non dico in quale classe andrai il prossimo anno, ma almeno in quale città andrai a finire, quale lavoro andrai a fare… Soprattutto quando il tuo progetto era di fare questo lavoro, di farlo bene e di farlo per sempre, e ti tolgono anche la prospettiva che sì, fai sacrifici, lasci la famiglia, gli amici, la tua terra, ti trasferisci lontano, ma prima o poi ti stabilizzerai, allora diventa davvero dura, a 27 anni, vedersi negato completamente il proprio progetto di vita.
testimonianza raccolta il 26-11-08
AS
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